“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione,  di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Recita così l’articolo tre della Costituzione. Un testo però smentito dai fatti, visto che, quando la Carta entra in vigore nel 1948, la legge prevede ancora che il marito sia “capo della famiglia” e la moglie “ne segua la condizione civile, ne assuma il cognome e sia obbligata ad accompagnarlo dovunque egli fissi la residenza”. Questa e altre contraddizioni sono analizzate nel libro “Diseguali per legge” di Elisa Pazè (ed. Franco Angeli) che partendo dal periodo dall’Unità d’Italia arriva oggi e fa il punto sulle disparità che ancora rimangono nelle leggi e, soprattutto, nella vita quotidiana. “Il processo di emancipazione femminile è stato graduale e tormentato – racconta l’autrice – Un passo importante si compie con la legge del 1919 che abolisce l’istituto dell’autorizzazione maritale: le donne sposate non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro e avevano bisogno dell’autorizzazione del coniuge per donare o vendere beni”. E’ poi nel secondo Dopoguerra, si raggiunge una delle tappe più significative del percorso paritario: viene riconosciuto alle donne il diritto di voto“.

E’ recente la messa in discussione della trasmissione del cognome paterno che rappresenta tutt’oggi il più vistoso residuo di disparità fra i sessi. “Tanto più singolare – osserva la Pazè – se si considera che nel nostro ordinamento nessuna norma prevede espressamente che a chi nasce da genitori sposati venga attribuito il cognome del padre”. Di recente è stato modificato il regolamento dello stato civile, consentendo di chiedere al prefetto, senza ulteriori ostacoli, di aggiungere al cognome paterno quello materno, perfino anteponendolo. “Si tratta di novità importanti, che non scalfiscono però il principio che sia l’uomo a perpetuare nominalmente la stirpe”. Un principio che il governo ha promesso di scardinare con una legge ad hoc in grado di modificare quella che la studiosa definisce una “consuetudine medioevale”.

Si parla quasi sempre di disparità a scapito delle donne, eppure anche gli uomini sono, in alcuni casi, discriminati. “Le discipline dell’aborto e della carcerazione di chi ha figli presentano una disparità a scapito dell’uomo. La donna che intende interrompere la gravidanza può escludere il marito o il compagno dalla procedura”. Come? Rifiutando la possibilità che il medico ascolti i pareri di entrambi i genitori. Alla donna detenuta che ha figli sono riconosciuti benefici preferenziali: può scontare la pena fuori del carcere, in strutture meno coercitive, le “case-famiglia protette”, a cui il padre detenuto non è ammesso. “A fronte di una tendenza legislativa volta a coinvolgere gli uomini nell’esercizio della genitorialità, si tende poi a ribadire che la cura dei figli compete in via preponderante alle donne”.

Le quote rosa arrivano nelle istituzioni con l’obiettivo di colmare la disparità. “Sono contraria in primis per motivi giuridici – spiega ancora Elisa Pazè – La rappresentanza politica deve prescindere da razza, sesso e condizioni personali, altrimenti bisognerebbe istituire quote per tutte le categorie “deboli”, a partire dai disoccupati. Con le quote si rischia di dare l’impressione di rivestire una carica non per le proprie capacità ma perché c’è bisogno di dare visibilità a entrambi i sessi”.

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