Il cominciamento canonico di ogni favola ben si adatta alla narrazione che oggi intendiamo proporre: quella di un pensiero politico che non esiste più, che non genera più modelli grandi e comprensivi, che non ha più il respiro largo delle grandi teorie della storia. Al tempo della Tribuna Politica televisiva, che nelle partentesi elettorali diventava appunto Tribuna Elettorale, si adottava un meccanismo artigianale semplice e onesto: si tirava la monetina e si accoppiavano in modo random gli interlocutori da contrapporre. C’erano le volte in cui il caso metteva insieme rappresentanti di schieramenti talmente vicini da rendere la trasmissione persino noiosa. C’erano invece volte in cui la contrapposizione generava una situazione di sulfurea eccitazione, con linguaggi e pensieri che si confrontavano, scontravano, sfioravano.

Succedeva però che in alcuni casi i politici, scelti mediante quel meccanismo elementare che niente aveva a che fare con le moderne tecniche del marketing televisivo e i suoi criteri premianti dell’audience, erano talmente contrapposti da rifiutarsi di partecipare al dibattito. Punto. E questo era l’elemento dell’enorme peso etico che aveva il fare politica nell’epoca della tanto vituperata Prima Repubblica. Che – sia detto per inciso – non è finita nel ’93 con Mani Pulite, ma era già agonizzante nei primi anni ’80, non molto dopo la fine del terrorismo.

Se due politici di razza si rifiutavano di incontrarsi (e ciò comportava, di solito, o interviste separate o sostituzioni dell’ultima ora), in assoluto spregio alla convenienza televisiva, ciò significava solo una cosa: le differenze avevano più valore delle somiglianze, le possibilità più vaste ed estese delle necessità, i modelli più significativi della qualità pragmatica. Che, per quanto possa sembrare siano tante cose, in realtà sono appunto una: un pensiero politico articolato, complesso, stracolmo di tensione,  che si nutre costantemente di contenuti ideali (ideologici), per la semplice ragione che governare è fare continuamente scelte su cosa è l’umanità e non condurre un’azienda sulla strada dei suoi profitti. Chi scrive non ha mai avuto simpatie per la destra. Ma vi posso assicurare che perfino Giorgio Almirante riusciva a destare la sua curiosità e il suo interesse.

E questo è l’elemento della complessità del linguaggio. Che significa complessità di pensiero e di cultura. Un patrimonio all’epoca abbastanza condiviso. Forse la questione in gioco è quella più ampia della modalità in cui si declina il pensiero nella contemporaneità. Se – per rifarmi ad alcuni passaggi di una interessante discussione di ieri mattino – la crisi dell’editoria non è tanto crisi del medium quanto del soggetto pensante, non crisi dell’insostenibilità dei costi della carta stampata quanto crisi dell’insostenibilità della scrittura, che prende le forme discorsive del blog e delle chat nei social network e abdica allo strapotere delle immagini, ciò va ricondotto al processo di disarticolazione e di semplificazione del pensiero, che è divenuto liquido, come i contenuti che cerca di pensare.

di Sandro Vero
__________________________________

Il blog Utente Sostenitore ospita i post scritti dai lettori che hanno deciso di contribuire alla crescita de ilfattoquotidiano.itsottoscrivendo il nuovo abbonamento Utente Sostenitore.

Tra i post inviati Peter Gomez e la redazione selezioneranno quelli ritenuti più interessanti. E ogni giorno ne pubblicheranno uno. Questo blog nasce da un’idea dei lettori, continuate a renderlo il vostro spazio.

Se vuoi partecipare sottoscrivi un abbonamento volontario. Potrai così anche seguire in diretta streaming la riunione di redazione, mandandoci in tempo reale suggerimenti, notizie e idee, sceglierai le inchieste che verranno realizzate dai nostri giornalisti e avrai accesso all’intero archivio cartaceo.

Articolo Precedente

Diritto d’autore: prevale il buon senso. Stop di Bray sulla ‘copia privata’

next
Articolo Successivo

‘Il Boss delle Cerimonie’: (O)scene da un matrimonio

next