Anche se le assomiglia un po’, Panama non è l’Italia. Così per Pietro Salini, numero uno dell’omonimo gruppo che ha appena incorporato Impregilo, il contenzioso sul Canale centroamericano rischia di avere un epilogo ben diverso da quello sull’inceneritore di Acerra o del Ponte sullo stretto. Tanto più che il presidente panamense Ricardo Martinelli non assomiglia affatto all’ex premier Mario Monti, che nel settembre dello scorso anno, poco prima che Salini diventasse finanziatore dell’avventura di Scelta Civica, obbligò la Regione Campania, con decreto finalizzato ad evitare un danno erariale, all’uso dei fondi fas regionali per pagare Impregilo sottraendoli ai mutui contratti dalle amministrazioni e alle opere di depurazione e bonifiche.

Lo Stato centroamericano non è infatti assolutamente intenzionato a pagare 1,6 miliardi di extra-costi per la commessa relativa all’ampliamento del canale che unisce l’Atlantico con il Pacifico e che consentirà il transito di navi molto più grandi di quelle che attualmente possono navigare nello specchio d’acqua. Il presidente Martinelli ha già prontamente invitato Roma e Madrid a prendersi la “responsabilità morale” di ciò che è accaduto e a mediare con le proprie aziende. E l’Autorità del canale (Acp) ha rispedito al mittente due proposte di Salini che partecipa al consorzio Grupos Unidos por el Canal, guidato dalla spagnola Sacyr, con una quota del 38 per cento aprendo la strada al blocco dei lavori e all’apertura di un arbitrato internazionale a Miami.

Non certo una bella notizia per Salini che avrebbe voluto chiudere il braccio di ferro con una proposta transattiva da 1 miliardo per il completamento dei lavori a fronte del miliardo e seicento milioni previsti o, alternativamente, ottenere da parte dell’Acp altri 500 milioni di dollari, oltre al consolidamento degli anticipi percepiti finora sino all’esito finale delle decisioni della procedura arbitrale. Tanto più che, come ha spiegato Salini, “Acp ha ancora a sua disposizione tutti gli stanziamenti di centinaia di milioni di dollari del piano finanziario per le contingenze e gli imprevisti, che non ha ancora utilizzato”.

Ma il governo di Panama non ci sta. E minaccia di affidare ad un altro consorzio la fine dei lavori. Prospettiva che, secondo Salini, è “illegale e impedita dal contratto” e che comunque rischia di far slittare il termine dei lavori di “non meno di tre anni”. Così per il numero uno del gruppo italiano, se non si arriverà ad una mediazione, allora “Panama non avrà il suo nuovo canale né i ricavi derivanti dall’operatività del nuovo canale”, ha concluso Salini. Ipotesi che evidentemente non piace allo Stato centroamericano che con l’ampliamento del canale, previsto nel 2015, potrà di intascare due miliardi di dollari di pedaggi in più l’anno. Ma che non vuole darla vinta alle imprese del consorzio. Anche perché Grupos Unidos por el canal si aggiudicò nel 2009 i lavori per l’ampliamento del canale per 3,2 miliardi di dollari, più di 300 milioni in meno del prezzo indicato dall’autorità e oltre un miliardo in meno dei consorzi concorrenti. Forse proprio perché non aveva contabilizzato l’impossibilità di utilizzare il “basalto per la realizzazione del calcestruzzo”, che poi, come ha spiegato Salini, ha fatto lievitare il costo dell’opera.

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