“Quella follia che rimane nascosta, che si camuffa, in attesa di ritornare, di prendere forma nelle notti di Testaccio, a Tor Bellamonaca, Centocelle, nelle periferie buie, nelle ville decennali dei Parioli, alla Garbatella, nei sotterranei della stazione Termini.” E soprattutto nelle strade del Pigneto, perché è qui, in questo quartiere trasformato dall’edilizia, dai flussi migratori e dalle mode che è ambientato, prevalentemente, Casilina. Ultima fermata di Enrico Astolfi (Ponte Sisto Edizioni).

Il romanzo è un noir della follia urbana che si dipana attraverso due storie che s’intrecciano fra loro. C’è la storia di Franco, il Grigio, delinquente di borgata, personaggio psicotico che incarna una città in preda alla violenza più becera, appena uscito di galera per aver massacrato di botte una cassiera durante una rapina, galvanizzato da visioni mistiche pseudo-religiose, in cerca di una nuova identità e che troverà il suo quartiere, la sua dimensione familiare, il suo quotidiano completamente stravolti. E c’è la storia di Roy Van Persie, un olandese innamorato dell’Italia, arrivato a Roma per prestare servizio presso un’associazione di volontariato che recupera cani randagi. All’appuntamento, però, non si presenta nessuno, la sede non esiste. Roy si perde nei meandri del Pigneto. Da salvatore di animali diventa lui stesso un randagio disperso nella città eterna. Attraverso i suoi occhi e quelli di Franco si scopre un’umanità capace sia di piccoli e grandi gesti di affetto che di violenza estrema.

Quello di Astolfi è soprattutto un romanzo sul Pigneto. Quasi un saggio antropologico sulle strade, i locali, gli odori e le persone che lo vivono. Profondo conoscitore di quello che descrive, attento osservatore, l’autore fa del quartiere il vero protagonista del noir. Gergalità romanesche, macchiette tipiche, fiumi di pendolari, perdigiorno, immigrati, una cloaca caleidoscopica su quanto la zona sia stata trasformata negli ultimi anni. 
Sai come si chiama il mio aiuto cuoco? Si chiama Md Alamin. E sai come si chiama l’altro aiuto cuoco? Samsur Hoque. E il lavapiatti? Selim. E sai di dove sono? Bengalesi. Ormai Torpignattara è diventata una enclave bengalese. Sono ovunque. Hanno comperato case, aperto negozi, call center, bar. Se ti fai una passeggiata verso le cinque di pomeriggio non ti sembra di essere a Roma ma a Dhaka. Ma nonostante tutto avrai visto che il mio locale non è cambiato, che ho tenuto tutto come prima. E sai perché?

Perché Samsur, Selim, Md mi lavorano a tre euro all’ora. Perché appena ho visto i primi puffetti color merda arrivare e iniziare a preparare l’invasione io non sono stato a guardare. Ho investito dei soldi e ho comperato delle case e adesso li tengo per le palle. Mi pagano l’affitto, lavorano per me, mi vanno a prendere il giornale e se voglio mi lavano la macchina. Io non ho bisogno di cambiare, io posso rimanere qui, nel mio ufficio a mangiare le tagliatelle con il tartufo e a scoparmi le cameriere come ho sempre fatto e come ho intenzione di continuare a fare.”

Il romanzo ha un climax romanesco, anche il ritmo è tipicamente romano. Molti brani sembrano non arrivare da nessuna parte, ci sono divagazioni e passaggi che si dilungano dilatando la storia e lasciando il lettore in balia del gusto dell’aneddoto dei personaggi, ma è proprio questa imperfezione narrativa la forza del libro, poiché rappresenta, appunto, la verbalità e la quotidianità della città. In fondo il Grigio e Roy passano in secondo piano rispetto al contorno, che diventa pietanza principale. Odori, colori, parole gettate al vento che l’autore è bravo a catturare. Una buona lettura, anche per chi volesse andare a Roma e farsi un giro al Pigneto. 

 

 

 

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