Dopo mesi di trattative, rallentate dalla Germania, si è arrivati a un accordo sulle procedure di salvataggio delle banche europee poco soddisfacente. Il settore bancario europeo ha conosciuto due gravi crisi. La prima fase nel 2007-2008 è iniziata negli Stati Uniti, con la crisi dei mutui sub-prime e il fallimento di Lehman Brothers, dovuta alla diffusione di strumenti finanziari complessi, all’accumularsi di una bolla creditizia e all’inadeguatezza dei controlli. Nel 2009 si è aperta una seconda crisi, con l’epicentro nell’area dell’euro, provocata dall’accumularsi di eccessivi debiti pubblici in molti Paesi europei e dalla mancanza di una politica coordinata. Questa seconda fase ha spinto l’euro sull’orlo della disgregazione.

Dopo l’introduzione della moneta unica, le banche europee erano state incoraggiate a considerare il mercato europeo come il loro mercato di riferimento, vi sono state fusioni transnazionali che hanno fatto nascere banche di dimensioni continentali. Si è arrivati a un assetto asimmetrico: un sistema bancario nel quale due terzi degli attivi era detenuto da gruppi bancari transnazionali e un sistema di vigilanza e di reti di protezione ancora di natura nazionale. Vi sono in Europa gruppi bancari che hanno un totale dell’attivo superiore al 50 per cento del Pil del Paese di origine, colossi bancari per i quali non sarebbe pensabile un salvataggio da parte delle sole autorità nazionali. La crisi di fiducia era legata anche a questi timori.

Le banche sono state spinte, anche dalle autorità nazionali, ad acquistare ingenti quantità di titoli del debito pubblico nazionale. In alcuni Paesi i dubbi sulla solidità delle banche nazionali ha diffuso dubbi sulla capacità degli Stati di salvarle e questo ha peggiorato il giudizio dei mercati sulla sostenibilità del debito sovrano (Irlanda e Spagna). Altrove il processo è stato opposto: dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico nazionale hanno influito sul giudizio dei mercati sulla solidità delle banche, vista l’elevata quantità di titoli pubblici presenti nei loro portafogli (Grecia, Portogallo ma anche Italia). Non si può garantire solidità al sistema bancario europeo se permane un assetto nel quale i salvataggi bancari sono affidati alle autorità nazionali. Vari Stati non avrebbero le risorse e in alcuni casi (Italia) i salvataggi innescherebbero una crisi di fiducia sulla sostenibilità del debito pubblico, con effetti pericolosissimi.

La via d’uscita resta quella di rompere il legame perverso tra stabilità bancaria e debiti sovrani, condividendo i salvataggi a livello continentale. L’accordo raggiunto a Bruxelles non è risolutivo dei problemi descritti. Si prevede che azionisti, obbligazionisti e depositanti (oltre una certa soglia) si assumano il costo di un eventuale salvataggio, e questo è un bene per i contribuenti. Se non bastasse, interverrà un Fondo finanziato dalle banche stesse (ma suddiviso su base nazionale). È stata respinta però l’idea di un sistema condiviso (comunitario) di rifinanziamento delle banche in difficoltà. Il fondo sarà pienamente attivo solo nel 2025. Durante il lungo periodo di transizione, toccherà agli Stati nazionali risolvere le crisi bancarie o usando direttamente loro fondi o ricorrendo a loro volta al fondo salva-Stati Esm. I fondi degli Stati e quelli presi dall’Esm per rifinanziare le banche andranno ad accrescere i debiti pubblici nazionali e dunque ad aumentare il rischio di default degli Stati.

Resta il nesso tra stabilità bancaria e debiti sovrani. Il Fondo alimentato dalle banche arriverà ad avere, nel 2025, solo 55 miliardi di euro, una somma esigua se si pensa che la crisi bancaria tra il 2008 e il 2011 è costata ai Paesi europei circa 4. 500 miliardi (dati della Commissione europea). La procedura inoltre è complessa, prevede il coinvolgimento di un comitato esterno di valutazione. Manca un vero sistema condiviso di garanzia contro le crisi sistemiche. La soluzione sarebbe stata assegnare alla Banca centrale europea non solo la vigilanza, ma anche la funzione di prestatore di ultima istanza (come accadeva per la Banca d’Italia, prima dell’euro). Tutto questo avviene in un momento nel quale non esiste più un mercato unico interbancario, le banche non si prestano più soldi e sempre più forte è il divario tra i Paesi europei nei quali la liquidità immessa dalla Bce circola rapidamente e raggiunge le imprese e le famiglie (Germania, in primis) e Paesi nei quali la liquidità resta dentro le banche e non arriva al sistema produttivo, come accade in Italia.

Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2013

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