A cinque anni dal crollo della Lehman Brothers l’economia americana riparte e lo fa da sola, senza trainare quella europea che invece continua a stagnare.

I dati del terzo trimestre, infatti, sono migliori delle aspettative di mercato, con una crescita del Pil superiore al 4 per cento (4,1 per cento) ed una spesa per il consumo al 2,5 per cento gli Stati Uniti stanno iniziando ad intravedere la luce in fondo al tunnel. Ci siamo, insomma pensano in molti, la lunga recessione, da molti definita depressione, volge ormai al tramonto. Anche il mandato di Ben Bernanke volge al termine, l’uomo che ha guidato la Federal Reserve in questi anni eccezionali attraverso la peggiore crisi economica dal dopoguerra, ed in un certo senso il singolo individuo che ha maggiormente influenzato anche l’economia  mondiale. Bernanke lascia le redini ad una donna, Janet Yellen, che gli ha fatto fa vice in tutti questi anni e lo fa allo stesso tempo in cui si chiude un ciclo di politiche eccezionali, il quantitative easing, meglio noto come l’utilizzo delle presse per immettere nel sistema abbastanza denaro per evitare che la recessione deteriorasse in una depressione simile a quella degli anni Trenta.

Da gennaio la Fed stamperà 10 miliardi di dollari al mese in meno di quanto ha fatto fino ad ora, e cioè 75 invece di 85 miliardi, si tratta di soldi necessari per sottoscrivere il debito pubblico del tesoro americano. E’ poca cosa, ma la decisione di ridurre la produzione di moneta sullo sfondo della tanto attesa ripresa economica americana mette la politica monetaria di questa nazione su un  binario opposto a quello dove viaggia l’economia europea, e tutto ciò fa presagire grandi cambiamenti nel 2014.

Naturalmente spetterà a Janet Yellen decidere quando e di quanto ridurre ulteriormente la produzione di moneta, come spetterà a lei consigliare la Casa Bianca sulla politica economica americana, ma di certo, a meno che l’economia non torni a contrarsi, Yellen seguirà la strada tracciata da Bernanke, e cioè lavorerà per il progressivo abbandono della politica monetaria espansiva, per tornare alla normalità pre-crisi, al ritmo piu’ veloce possibile. Tutto ciò non avverrà in un anno, ce ne vorranno almeno due o tre, ma il cambiamento di rotta sarà egualmente significativo per gli Stati Uniti e per il resto del mondo.

Che significa? Che per la prima volta dallo scoppio della crisi Europa e Stati Uniti si muoveranno in direzioni opposte, o meglio la Bce e la Fed perseguiranno politiche diverse, e questa divergenza avrà prima di tutto un impatto immediato sui tassi di cambio – il dollaro è già in ascesa – e sui flussi di capitale ed in secondo luogo sulla ripresa europea.

E’ probabile che il tapering, questo il nome che contraddistingue la nuova politica monetaria americana, rompa l’incantesimo creato dalle parole di Draghi “faremo di tutto per salvare l’euro”. Questo tipo di rassicurazioni difficilmente funzionerà dal momento che gli investitori hanno ormai un’economia in ripresa dove investire, ed è anche probabile che se gli indicatori americani continuano ad essere positivi, nel primo trimestre del 2014 si verificheranno grossi movimenti di capitali verso questa nazione.

Nel 2014 avremo, dunque, un euro debole, il che significa una boccata d’aria per gli esportatori europei. Ma la debolezza della moneta unica potrebbe essere legata anche alla fuga di capitali da Eurolandia, un fenomeno inevitabile se l’economia americana darà alla Fed la possibilità di alzare i tassi in un futuro non troppo lontano. Se fosse così allora diventerà sempre più difficile coprire il fabbisogno del debito pubblico delle nazioni deficitarie europee e ricapitalizzare la banche di questi paesi.

Sembra assurdo ma la velocità con la quale l’economia americana si è ripresa rispetto a quella europea potrebbe finire per danneggiare la seconda e prolungarne la crisi economica.

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