Soto babat, tonseng kambing, nasi bakar, sate ayam… Difficile decidere che cosa mettere sotto i denti quando la scelta è così ampia, e soprattutto così oscura. Osservare i cibi non aiuta, forse peggiora addirittura le cose: i banchetti di piazza Jalan Pintu espongono fritture di ogni foggia, stufati di ogni colore e ingredienti di ogni tipo. Ovunque si cucina, e ovunque si mangia. Sempre (foto 1). 

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In Indonesia, come in Malesia, in Thailandia, in Vietnam, vige un’eterna pausa pranzo, senza pause e senza pranzo. E sfila una galleria di nature morte con un loro fascino ma indecifrabili, se non scoraggianti, come il durian, il frutto che sembra una mina antiuomo ed emana l’inconfondibile odore di pattumiera (foto 2). 

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Pare sia dolcissimo, il classico brutto ma buono, e c’è chi se lo porta in hotel di nascosto, perché sarebbe vietato, vista la puzza. Noi non ce la sentiamo di verificare, però giorno dopo giorno abbiamo rivoluzionato le abitudini alimentari, mangiamo anche noi quando capita e abbiamo capito, in Asia bisogna lanciare la monetina, dopodiché le probabilità di mettere sotto i denti una leccornia o una schifezza saranno grosso modo pari. Proviamo a diversificare il rischio; Pietro punta su una zuppa, Nanni su uno spiedino, chi su una foglia di banano che viene farcita con cura, di che cosa lo capiremo, forse, solo vivendo. I venditori guardano divertiti la nostra masticazione circospetta e sorridono, come tutti.

Appena arrivati a Kuala Lumpur, siamo discesi fino a Giakarta per incontrarci al volo con Francesco, arrivato anche lui all’improvviso dall’Italia per un breve viaggio di lavoro. Nanni e Francesco hanno fatto il liceo insieme. Nel 1976, subito dopo la maturità, furono gli unici capaci di convincere i genitori e partirono per un indimenticabile giro d’Europa con zaino, sacco a pelo e fornellino a gas. Avevano perso le speranze di rincontrarsi durante questo giro del mondo, e invece è successo in extremis. Coincidenze, per chi ci crede.

Giakarta è il luogo più improbabile al mondo per darsi un appuntamento (a parte che non si voglia dare un bidone, allora è perfetto). Una megalopoli dove si vive per strada ma non ci sono i marciapiedi, una giungla di asfalto, fango, smog, umidità e cemento capace di far sembrare Kuala Lumpur, che pure non scherza, un ridente villaggio. Niente a misura d’uomo, e vabbè, questo non fa più notizia, ma nemmeno a misura di automobile. Dieci milioni di abitanti senza metropolitana, senza corsie preferenziali, rari e gremiti mezzi pubblici. Solo le miriadi di scooter riescono a farsi largo con il coltello tra i denti nell’ingorgo permanente, pronto a diventare biblico quando piove (tutti i giorni).

Insomma, per rivedersi dopo tanti anni sarebbe meglio darsi appuntamento a Portofino. Ma è proprio grazie a tutto questo che Francesco è qui. Si occupa di importazione di caschi per moto e non ha mai smesso di girare il mondo, specialmente il Sud-Est asiatico, dove le le due ruote sono il primo se non l’unico mezzo di trasporto. A vent’anni aveva due passioni: le moto e i viaggi. E’ riuscito a conservarle tutte e due con la professione che si è inventato con le sue mani.

Occuparsi delle cose che si amano (e non fingere di amare ciò di cui ci si occupa) mantiene giovani; resta il fatto che ritrovarsi in viaggio, 37 anni dopo il giro d’Europa fatto a vent’anni, ha i suoi rischi. La nostra bibbia era l’ormai introvabile Europa Autostop di Ken Welsh (foto 3), ma ora l’autostop stesso è in estinzione… il turismo ha cambiato tutto… altro che telefonini… era più avventuroso arrivare a Parigi allora o passeggiare oggi per quel che resta della vecchia Giakarta?

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Eran belli i nostri tempi: l’ombra di una micidiale (e struggente) canzone di Guccini si allunga su di noi, ma a salvarci arriva mister H., megaproduttore di caschi indonesiano, che ha dato appuntamento a Francesco al Cafè Batavia; un edificio dell’era coloniale tutto tek, ottoni, specchi, e foto delle celebrità che lo hanno frequentato come nemmeno a Vienna (foto 4), ma in una città che ha sistematicamente raso al suolo il proprio passato.

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Se siete sensibili al fascino dei contrasti e dell’inconguità, se pensate che gli estremi si guardino ma non si toccano, il Batavia è difficile da battere. Mentre il caffè giavanese deposita lentamente i suoi fondi mi faccio coraggio e chiedo a Mister H. quello che ogni interista si sta domandando: perché il suo concittadino Erik Thohir ha sborsato 250 milioni di euro per comprarsi l’Inter? Vista da qui, dice mister H., la spiegazione c’è. Gli indonesiani vanno pazzi per il football, ma sono frustrati per il mediocre livello nazionale. Nei prossimi Mondiali (trasmessi in esclusiva dal network di Thoir) come al solito dovranno accontentarsi di stare alla finestra. E subito dopo i Mondiali, in Indonesia ci saranno le elezioni presidenziali, dove il partito del presidente Susilo Bambang, non ricandidabile dopo due mandati, è sospettato di corruzione e sotto di parecchi punti nei sondaggi. Per risalire ci ci vorrebbe un miracolo; e che cosa nel mondo di oggi può fare un miracolo, se non il calcio? Ecco che Thoir, buon amico di Susilo e sostenitore della sua politica filo Usa, compra l’Inter, fa parlare il mondo, prepara tourné, e promette all’Indonesia una futura età dell’oro del pallone. Tutto questo non vi ricorda qualcosa? Nel mistero dell’Inter indonesiana c’è molto di italiano.

(29-continua)

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