E’ tempo di Renzinomics. E’ tempo di flessibilità, di liberalizzazioni, di svecchiamento del mercato del lavoro, di riduzione del cuneo fiscale. Da Firenze è arrivato il nuovo Tony Blair, il giovane start-upper che ci libererà dalle pastoie sindacali e finalmente svecchierà un sistema troppo rigido per sopravvivere in tempi di globalizzazione.

Finalmente si fanno le riforme. Basta con l’eterna indecisione. Ora si riparte. Bene, bravo, bis.

Aspettate un attimo però: e se ci stessimo sbagliando?

Parliamoci chiaro: dopo aver attraversato la più devastante crisi economica dall’unità, il Paese sta insieme con lo sputo. I 3,5 milioni di disoccupati, i Forconi in strada, il 40% dei giovani in età da lavoro a casa, dovrebbero essere segnali sufficienti a farci comprendere la pericolosità di qualsiasi intervento che possa mettere in discussione gli attuali meccanismi di protezione sociale.

Non vorrei essere frainteso: non sono mai stato un difensore dello Statuto dei lavoratori né un partigiano dell’interpretazione maniacalmente protettiva che ne ha fatto la giurisprudenza. Mi chiedo solo: quand’è che le cinture di sicurezza tornano davvero utili? Quando si procede tranquilli sul rettilineo sgombro dal traffico o quando si sta andando contro il muro? E già…perché se qualcuno non se ne fosse accorto, noi contro il muro ci stiamo andando e forse questo non è proprio il momento migliore per smantellare gli ammortizzatori sociali, per quanto vecchi e inefficienti.
I primi mesi di vita della “Riforma Fornero”, del resto, hanno dimostrato l’evidente e intrinseca debolezza dell’argomento favorito da chi propaganda da anni la flessibilità del mercato del lavoro e cioè il vecchio adagio per cui se è facile licenziare allora vien voglia di assumere.

Come pure dovrebbe essere chiaro che anche il taglio del cuneo fiscale è destinato a non produrre effetti significativi laddove non assuma dimensioni almeno pari al 10% – 15% (un po’ più degli attuali 15-18 euro mensili, insomma). E non finisce qui.

Anzi, a costo di attirarmi le antipatie degli apprendisti stregoni del ‘blairismo de ‘noantri’, svelerò alcune verità sconvolgenti:

  1. Le imprese, per quanto incredibile, non assumono per licenziare;Se si fa in modo che sia più facile licenziare, l’unico risultato che si ottiene è (udite, udite!) che si licenzi;

  2. Le imprese non assumono i lavoratori perché costano 150, 1.500 o 15.000 euro in meno all’anno, esse assumono esclusivamente perché i lavoratori possono essere utili ad accrescere la produzione;

  3. La produzione si accresce, per quanto possa apparire bizzarro, solo se il giro d’affari si espande.

  4. Il giro di affari si espande, concludiamo in maniera del tutto inattesa, se la domanda a sua volta aumenta;

Chiaro? E’ questa secondo me la prospettiva corretta per guardare l’attuale momento di crisi del mercato del lavoro: chiedersi come si fa a innescare l’espansione della domanda e non – come fanno gli adoratori del flessibilità – quale sia il modo più efficace per deprivare di tutele le fasce deboli della popolazione.
Quando avremo conquistato la crescita, sarà certamente possibile procedere alla liberalizzazione del mercato del lavoro (e magari non solo di quello) senza determinare l’esplosione della bomba sociale che sta ticchettando già da un po’ sotto le nostre seggiole.

Lo so: descrivo una realtà molto meno affascinante di quella che emerge dalle efficacissime slides di Yoram Gutgeld e dalle chiacchiere facilone sul “merito”.
Vorrei anch’io che non fosse così.

Ma, del resto, vi sembra credibile che durante una crisi come questa e senza alcuna prospettiva di espansione del giro d’affari, le aziende si mettano ad assumere perché è finalmente passato il modello di “contratto di lavoro unico a protezione crescente” o perché ci siamo giocati il miliarduccio di Imu sul cuneo fiscale come suggerisce Filippo Taddei?

A me no.

Rimane infine da interrogarsi su quale sia il reale movente che spinge la gran parte del pensiero economico oggi “di moda” a insistere su certe misure apparentemente prive di senso.
Ebbene: la mania per la liberalizzazione del mercato del lavoro un senso ce l’ha eccome.

Questi tentativi di riforma altro non sono che la ricaduta sul piano lavoristico di uno schema ideologico (e politico) per il quale l’Italia deve ricercare la competitività mediante la riduzione della quota di reddito nazionale riservata ai salari e al lavoro autonomo para-subordinato: dobbiamo costare meno, dobbiamo sanguinare, dobbiamo ridurre al massimo la protezione del lavoro e così, prima o poi, riusciremo ad essere veramente concorrenziali con le aree più povere del globo.

Certo, ci si può provare. Oppure no.

Oppure si può fare un giro a Bruxelles e a Francoforte e chiarire ai nostri soci che non intendiamo suicidarci a colpi di avanzi primari e tagli alla spesa sociale, che non possiamo accettare la distruzione del mercato interno per inseguire un modello di competitività basato sull’azzeramento dei consumi, che non possiamo diventare cinesi per far contenti i tedeschi.

Che ne dici Matteo, ci vogliamo provare?

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