Una catena irrefrenabile di informazioni circola tra i detenuti. La chiamano “radiocarcere”. Vi si narra che in una delle città più ricche del Nord esista uno dei carceri peggiori d’Italia. In ogni cella concepita per un detenuto si sta in quattro, con letti a castello, un piccolo tavolo e due sgabelli nello stesso spazio. Da una parte è stato ricavato il bagno comune, a poche decine di centimetri dall’angolo cottura dove si cucina per tutti. Si sta chiusi in spazi così angusti per 22 ore al giorno. Domina la televisione, con un volume minimo assordante. Fortuna che a una certa ora della sera l’agente addetto stacca l’interruttore centralizzato e mette tutti a tacere.

È facile immaginare come dev’essere difficile la convivenza, considerando quanti problemi dobbiamo affrontare noi nella nostra normale vita di coppia, dove si tratta di spartire lo spazio di un appartamento (più o meno grande) con una persona che abbiamo scelto, preferibilmente per amore. In galera tocca dividere pochi metri con molti individui, che non si scelgono e che normalmente non sono i più educati, puliti e rispettosi che si incontrano per strada.

Gli stranieri, numerosissimi, hanno costituito gruppi identitari chiusi, spesso in contrasto gli uni contro gli altri. Risse con sfregi e tagli di lamette sono all’ordine del giorno. Anche i più pacifici o quelli che comunque vogliono stare per conto loro, possono incappare in violenze, ritorsioni, vendette; magari per un semplice equivoco, un involontario malinteso, cose che capitano quando si confrontano culture profondamente diverse. A differenza di quel che ci si aspetterebbe, sono più aggressivi e commettono più prepotenze quelli che hanno commesso reati lievi: avendo pene brevi non hanno molto da perdere subendo rapporti disciplinari; al contrario, chi ha da fare una lunga detenzione, condannato per qualcosa di molto grave, superato un periodo iniziale di assestamento ha tutto l’interesse a non creare problemi che gli intralcino il percorso di reinserimento.

Non ci sono scuole, né attività culturali in quel carcere del Nord. Pochissimi volontari, scarsi contatti con l’esterno. Non si può fare sport. Si va a giocare a calcio in un campo vicino solo una volta al mese. Per il resto ci si arrangia nel piccolo cubicolo di cemento adibito alla cosiddetta “aria”, dove schiere di detenuti passeggiano a frotte cercando di non intralciarsi, per non infrangere antichi codici d’onore malavitoso. Quando si mettono ai bordi, si gioca con un pallone prodotto con un metodo alquanto malsano: su di un fuoco fatto con un mucchio di carte di giornali si bruciano e sciolgono i sacchi per l’immondizia, per poi accartocciarli facendogli assumere una forma vagamente sferica.

Sono concesse solo due ore a giorno di “aria”, cioè fuori dalle celle, da passare nel cubicolo o nella stanza della “socialità” dove c’è un ping pong e un biliardino. Ma chi vuole trovare un proprio momento di intimità al bagno, desidera lavarsi o telefonare, deve rinunciarci. La doccia si può fare solo nei giorni dispari, nelle stesse due ore d’aria del mattino; così quando arriva il venerdì, giorno dei colloqui con i familiari, si va normalmente sporchi di due intere giornate. Ai detenuti non è data la possibilità di lavarsi i panni con acqua calda, a meno che un agente più comprensivo chiuda un occhio e lasci che dalle docce si riempia un bustone da portare in cella.

Non c’è riservatezza né nei colloqui con l’unico medico a disposizione, né per la posta con le lettere che vengono fatte trovare aperte gettate sul letto. Persino il cappellano è un personaggio che sconfina nel romanzesco: regolarmente alticcio, ha un passato ambiguo (accusato di essere un ex rapinatore) e tutti lo chiamano “Fratello Lupo”.

Scherzi a parte, per sopravvivere in un ambiente simile la maggior parte dei reclusi fa larghissimo uso di psicofarmaci, calmanti, sonniferi: la chiamano “terapia” e passa per tutte le sezioni la mattina, su un carrello, subito dopo la colazione.

Come tutto ciò che mi viene raccontato dai detenuti, non posso sapere se si tratti di verità o, come vorrei sperare, di fantasie “non attendibili” di chi ha fatto troppi anni di galera. Alla lunga, dopo anni di riscontro incrociato di varie testimonianze, devo dire che purtroppo è tutto verosimile.

Anzi, in altri contesti ho sentito di letti a castello a tre ripiani, sì che chi dorme su in alto non ha neanche lo spazio di alzarsi seduto senza sbattere al soffitto. Bagni alla turca comuni, in mezzo a stanze prive di finestre. Docce ancor più razionate e quasi sempre fredde. Celle sovraffollate senza sgabelli, per cui si sta sempre sul letto e per mangiare tocca appoggiarsi per terra. Cose inenarrabili nelle “celle lisce”, cioè le stanze completamente vuote per l’isolamento di chi commette qualche violenza o atti di autolesionismo: ci si avvicina alle pene corporali.

Ora, a parte l’afflittività della pena che entro certi tempi e certi limiti deve in qualche modo risarcire le vittime dei reati, qualcuno deve spiegarmi a cosa serve un sistema simile di carcerazione. Cosa possiamo aspettarci da chi viene fuori da un’esperienza del genere? Dov’è la funzione rieducativa, il reinserimento sociale? Si rende arduo anche il compito degli operatori addetti al trattamento: polizia penitenziaria, educatori, strutture sanitarie.

Secondo i dati del Ministero della Giustizia, a noi contribuenti ogni detenuto comporta un esborso di 110-120 euro a giorno. Costi molto elevati per poi restituire alla società, a fine pena, persone peggiori di quelle che erano, pronte a commettere nuovi reati. Si è dimostrato che la “zero tolerance”, da sola, non paga: negli Stati Uniti, dove c’è la pena di morte e una percentuale impressionante di detenuti (2 milioni e mezzo su una popolazione di 300 milioni), la sicurezza sociale nelle città non è affatto garantita, anzi c’è più violenza che altrove con un numero altissimo di persone uccise da armi da fuoco.

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