I prezzi di smartphone, tablet e Pc – assieme a quelli di decine di altri supporti e dispositivi – il prossimo anno, in Italia, aumenteranno di oltre cento milioni di euro.

Smartphone e Personal Computer, ad esempio, costeranno oltre 4 euro in più del prezzo attuale mentre il costo di un tablet aumenterà “solo” – si fa per dire – di poco più di 3 euro.

Il salasso che sta per abbattersi sul mercato dei supporti di registrazione [n.d.r. dc, dvd, hard disk e pendrive] e dei dispositivi utilizzabili per la registrazione [telefonini, lettori MP3, smartphones, tablet, pc e persino televisori] è dovuto ad un Decreto al quale il Ministero dei Beni e delle Attività culturali sta lavorando, in gran segreto, da settimane allo scopo di aggiornare i cosiddetti compensi da copia privata ovvero l’indennizzo che la legge sul diritto d’autore prevede venga riconosciuto ai titolari dei diritti a fronte del sacrificio che soffrono ogni qualvolta un utente effettua una copia per uso personale di una loro opera, legittimamente – cioè dopo averne acquistato un originale – ma senza pagare un apposito prezzo.

Si tratta di un nuovo brutto scandalo italiano che rischia di consumarsi nel silenzio dei media e nell’indifferenza dei più.

Un giudizio tanto severo trova è dovuto a ragioni di metodo ed a questioni di merito.

Cominciamo dalle prime.

E’ un dato di fatto – facilmente dimostrabile da una lunga serie di tracce documentali lasciate alle spalle – che al Ministero dei Beni culturali stanno scrivendo la nuova disciplina praticamente sotto dettatura della Siae, la Società italiana autori ed editori che si è presa la briga di inoltrare al ministro i propri dati di mercato, le proprie rilevazioni e persino una bozza del decreto che sarà.

E’ un fatto inaccettabile sotto il profilo del metodo.

E’, naturalmente, assolutamente normale che Siae venga coinvolta nel processo di redazione della nuova normativa ma non le si può attribuire una leadership nel processo di normazione per la semplice e non trascurabile ragione che la Siae è portatrice di un interesse proprio ed egoistico nella partita giacché ricava, oggi, circa quattro milioni di euro dall’intermediazione del cosiddetto equo compenso e ricaverà dall’anno prossimo oltre 10 milioni di euro dai compensi oggetto del Decreto che sta contribuendo a scrivere.

E’ come se si chiedesse ad un esattore delle tasse pagato a percentuale di scrivere, al posto del Ministero dell’Economia, una legge su una nuova tassa.

Nessuno potrebbe meravigliarsi di scoprire che le aliquote del nuovo balzello sono straordinariamente salate.

E’ grave che il ministro Bray non abbia colto questa vistosa anomalia.

Ed è ancora più grave se si considera che la disciplina vigente prevede che il Ministero proceda al suo aggiornamento sulla base dei lavori di un tavolo tecnico da istituire ed al quale invitare tutti i rappresentanti delle categorie interessate. Inutile che il tavolo in questione non è mai stato istituito e che si è preferito lavorare ad un “tavolinetto” con la sola Siae ed una piccola pattuglia di soggetti portatori dei soli interessi dei titolari dei diritti.

Ma non basta.

Sempre per stare alle questioni di metodo è gravissimo che il Ministero dia credito a quanto le racconta Siae a proposito della circostanza che l’adeguamento si renda necessario perché il cosiddetto equo compenso sarebbe, in Italia, straordinariamente più basso (oltre il 70%) rispetto alla media europea. Gravissimo perché la “media” europea della quale parla Siae, in alcuni casi – smartphones e tablet ad esempio – non è quella dei 28 Paesi dell’Unione ma dei soli due o tre Paesi che, ad oggi, prevedono un compenso da copia privata basato su un sistema analogo a quello italiano e che incide sulle stesse categorie di dispositivi. Serve davvero coraggio per definire media europea un confronto alla buona con i valori applicati in un paio di Paesi su oltre 28.

E veniamo alle questioni di merito o, almeno, alle principali.

La prima è a dir poco eclatante: il presupposto del cosiddetto equo compenso è che il consumatore si faccia una copia, per fini personali, di una canzone o di un film, senza che la licenza in forza della quale fruisce dell’opera lo preveda espressamente.

La classica ipotesi era la registrazione su una cassetta dell’album che si era acquistato sul vecchio disco in vinile. Su uno smartphone o su un tablet, però, è davvero difficile copiare musica o film diversi da quelli che si acquistano sulle piattaforme dei grandi distributori concludendo contratti di licenza che prevedono espressamente ogni possibile forma di utilizzo dell’opera in questione e vietano tassativamente ogni ulteriore modalità di fruizione. Il rischio – per non dire la certezza – è, quindi, che precedere un così salato equo compenso su smartphone e tablet significhi imporre al consumatore di pagare due volte per lo stesso utilizzo dell’opera che ha acquistato: una volta come prezzo della licenza ed una seconda come equo compenso.

E’ una soluzione semplicemente iniqua che Siae ha rappresentato al Ministero come equa.

E’ l’ennesimo scandalo italiano e dispiace constatare che il Ministero dei Beni e delle attività culturali offra il palcoscenico per una cosa triste rappresentazione del dramma democratico che il Paese sta vivendo. 

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