Delocalizzare o restare in Italia? Questo è il problema. Almeno per i call center, settore simbolo del precariato. Il trasferimento delle attività all’estero è noto da tempo e ha riguardato marchi come Sky, Fastweb, Vodafone oppure realtà del settore importanti come Almaviva. Tra i paesi preferiti la vicina Albania, con circa 60 aziende tra Durazzo, Valona e Tirana. Ma anche la Romania o la Tunisia. Se negli anni Duemila, come nel caso di Atesia, i lavoratori manifestavano soprattutto per regolarizzare il proprio lavoro, ora la protesta è contro le delocalizzazioni: lo hanno fatto quest’estate i dipendenti Fastweb oppure l’Almaviva di Palermo e, ancora, i dipendenti di E-Care.

In tempi di crisi ogni lavoro è essenziale, anche quello meno professionale dei call center, per quanto si tratti ormai di una occupazione rilevante. In Puglia, ad esempio, Teleperformance è la seconda azienda dopo l’Ilva con 3.000 dipendenti, mentre Almaviva (ex Atesia) ne occupa 24 mila in Italia. Contro le delocalizzazioni si sono affermate due soluzioni: una legislativa, l’altra sindacale.

La prima, ha posto dei limiti al processo con apposite restrizioni. La soluzione sindacale sembra invece aver adottato il principio: se il call center si sposta in Albania portiamo l’Albania qui da noi. Cioè, riduciamo drasticamente i salari. È quanto appare dalla lettura dell’ultimo contratto di settore siglato da Cgil, Cisl e Uil con le due strutture padronali, Assotelecomunicazioni e Assocontact in cui si prevede una sorta di “salario di ingresso” al 60 per cento della paga minima.

Con i 100 mila occupati – senza contare quelli interni alle aziende – i call center sono la vetrina per clienti in cerca di informazioni oppure da assoldare con proposte “allettanti”. Il contratto si riferisce a questi ultimi, i lavoratori a progetto (co.co.pro.) in outbound, cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing e televendita, ricerche di mercato, ecc.). Si tratta di 30 mila addetti per i quali la riforma Fornero ha richiesto il ricorso alla contrattazione per determinarne la retribuzione. E così i datori di lavoro e i sindacati di categoria, Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, hanno siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60 per cento fino a gennaio 2015. Da quella data, poi, si risale di anno in anno fino a raggiungere il 100 per cento del minimo nel 2018. Una forma originale di “salario di ingresso” prolungato nel tempo. Inoltre, per le nuove assunzioni al termine del contratto, l’azienda utilizzerà i lavoratori già assunti sulla base di una graduatoria. Ma per potervi accedere i collaboratori dovranno sottoscrivere “un atto di conciliazione individuale conforme alla disciplina prevista dagli articoli 410 e seguenti del Codice di procedura civile”. Si tratta della rinuncia a diritti pregressi che non vengono nemmeno specificati.

Sai da parte datoriale, sia da parte sindacale, l’accordo è stato difeso come “una importante novità nel panorama delle relazioni industriali”. Le parti hanno addirittura siglato un comunicato congiunto al Fatto, il presidente di AssTel, Cesare Avenia, spiega che “non era mai avvenuto prima che si stipulasse un accordo avente come oggetto dei lavoratori non dipendenti”. Avenia poi, insiste sull’importanza di “aver fissato una retribuzione minima” in un accordo che “amplia le certezze per i lavoratori”. Allo stesso tempo, però, fa notare una fonte sindacale, “si istituzionalizza una contrattazione separata per i co.co.pro che impedisce loro di accedere al contratto generale”.

L’altra misura, quella legislativa, è stata introdotta dal decreto del governo Monti del giugno 2012. Prevede che il cliente contattato da un call center sia immediatamente informato della collocazione estera di chi raccoglie i suoi dati. Ma soprattutto sospende l’erogazione degli incentivi “ad aziende che delocalizzano attività in Paesi esteri”. Norma in parte mitigata dalla circolare interpretativa del 2 aprile di quest’anno con la quale il ministero del Lavoro ha limitato le restrizioni solo alle delocalizzazioni verso “paesi extracomunitari” in analogia con la legislazione Ue.

Nati impetuosamente agli inizi degli anni Duemila, i call center si sono evoluti confusamente con contratti “selvaggi”. La vertenza dell’Atesia nel 2005 ha costituito uno spartiacque, anche per la durezza dello scontro. Contemporaneamente sono usciti i film di Ascanio Celestini, Parole sante (basato proprio sull’Atesia) e, in particolare, Tutta la vita davanti di Paolo Virzì tratto dal libro di Michela Murgia, Il mondo deve sapere. Il call center sembra la catena di montaggio degli anni Duemila. Nel 2006, l’allora ministro del Lavoro, Cesare Damiano, uno dei pochi che si occupa ancora di lavoro, con una circolare riuscì a stabilizzare “circa 24 mila lavoratori”. Lavoro distrutto dal successivo governo Berlusconi. Nel frattempo si è ampliato il fenomeno di delocalizzazione alla ricerca del costo del lavoro più basso. Fino a scoprire che quel costo si può ridurre anche qui.

Da Il Fatto Quotidiano del 27 novembre 2013

LA REPLICA DI ALMAVIVA: “NON ABBIAMO NEPPURE UN OPERATORE ALL’ESTERO”
Il 27 novembre il Fatto si è occupato dei call center citando erroneamente Almaviva tra le aziende che delocalizzano le attività. Vogliamo precisare, e ci teniamo fermamente, che Almaviva, come stabilito dallo Statuto dell’azienda, non ha nemmeno un operatore all’estero impegnato sulle chiamate da e verso l’Italia. Questo a garanzia dell’occupazione e della qualità del proprio servizio.
Direzione comunicazione del Gruppo Almaviva

Prendiamo atto della precisazione che dovrebbe rassicurare anche quei dipendenti Almaviva che protestano in Sicilia e che per primi hanno evocato il rischio delocalizzazione. Ma anche gli altri che su questo tema si sono rivolti al presidente Giorgio Napolitano. (s.c.)

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