Mi trovo trascinato in una moderata polemica avviata dall’amico economista Fabio Sabatini che, sull’ultimo numero online di Micro Mega, sotto il titolo “Economisti dappertutto? discetta sui presunti abusi commessi da chi (come me per esempio) si dedica a scrivere opinioni in materia di economia senza esserne a suo avviso qualificato. Poi si produce in una complicata elencazione di titoli e meriti, come la laurea e i master in scienze economiche, la pubblicazione di studi e ricerche su riviste specializzate o la lettura presso degli atenei, per stabilire chi è davvero qualificato e chi invece è da considerare un intruso.

Lui non ci gira troppo in giro, usa proprio il termine “intrusi” per riferirsi a coloro che si intrufolano nella materia riservata (secondo lui) ai professoroni patentati per cercare di dire qualcosa che magari i professoroni patentati non dicono.

Può essere che, seguendo la sua logica, ci siano degli intrusi tra i giornalisti che si occupano di economia, lui però è a sua volta un “intruso” nel campo linguistico, perché nessun vocabolario da’ alla definizione di “economista” la sua interpretazione. Generalmente i vocabolari della lingua italiana definiscono “economista” colui che è semplicemente “studioso di economia” (Zingarelli), o colui che “studia le scienze economiche” (Zanichelli). E nessun vocabolario aggiunge che bisogna farlo alla Università La Sapienza di Roma.

Intendiamoci, il lavoro appena iniziato dal Sabatini (lui stesso dice che è solo all’inizio) è un lavoro mica da poco: andarsi a scartabellare tutti i giornali e tutte le pagine economiche, stampate su carta, o circolanti nel web, per censire tutti quelli che firmano qualche articolo a sfondo economico e poi su tutti questi andare a verificare quali titoli universitari o accademici costoro possano vantare per essere davvero titolati a farlo è davvero un lavoro da certosino.

Meritorio sotto il profilo della ricerca, ma non se ne capisce l’utilità pratica.

Intanto una cosa del genere puzza tanto di classismo (se non peggio) e, condotta con questi semplicistici criteri di valutazione, rischia addirittura di impantanarsi nella semplice burocratizzazione dei titoli necessari per qualificarsi idonei a scrivere di economia.

Ovviamente ha perfettamente ragione a sostenere che per scrivere di economia bisogna perlomeno capirne un po’ di più della media di chi si accontenta di leggerne, ma poi si deve fermare lì perché sa benissimo anche lui che il titolo di studio, e anche le successive qualifiche conquistate nel tempo, se non ci si tiene costantemente aggiornati sull’evolversi della materia, ci si ritrova già superati il giorno dopo averli conseguiti.

Ma anche il continuo aggiornamento potrebbe non bastare, se fatto solo allo scopo di stare a galla.

Si vede subito la differenza tra il professorone che insegna all’università, ma si accontenta di “lucidare” i suoi titoli e accarezzare i suoi privilegi, e quello che invece ci mette la passione per penetrare e capire le novità che arrivano dalla mutazione delle dinamiche economiche imposte alla società civile dall’introduzione, per esempio, delle nuove tecniche finanziarie.

Il primo se ne sta arroccato nella sua roccaforte universitaria a godersi i privilegi che ne derivano. Il secondo si spende nell’impegno civile per informare non solo il corpo accademico (anche attraverso le “letture” in altre sedi) ma tutta la società civile di quello che lui vede e interpreta. Poi, se ha il coraggio di esporsi, lancia l’allarme o scrive le “prescrizioni” che, secondo lui, sarebbero la medicina indicata per attuare le necessarie trasformazioni e riforme.

Quindi nemmeno tutti i “titolati” sarebbero idonei a scrivere di economia sui media, ma solo quelli dotati della necessaria “passione” per essere sempre aggiornati e capaci di confrontarsi con altri come lui ma che la pensano magari diversamente.

Solo a questi ultimi però lui riconosce il diritto di qualificarsi “studiosi”. Infatti nel suo articolo denuncia gli “economisti-che-non-lo-sono” in quanto si auto-attribuiscono la qualifica di “economista” o di “studioso” non confortata da una preparazione o da una professionalità adeguata alla qualifica. Però riconosce loro almeno la “passione”. Infatti dice che, al massimo, potrebbero autodefinirsi “appassionati”. (A lato pratico cosa cambia?)

Ma, come abbiamo visto sopra, nemmeno il titolato professore, pur essendo idoneo ad insegnarla, sarebbe adeguato a commentare pubblicamente di economia qualora fosse privo di  quella carica di passione, e di coraggio, indispensabile ad aggiornarsi quotidianamente sulla materia per cimentarsi nel confronto pubblico.

Comunque, visto che ha voglia di fare questa indagine, consiglio al Sabatini di cambiare bersaglio.

Sarebbe molto più utile alla causa del cittadino se l’egregio Sabatini, invece di fare la sua ponderosa ricerca tra i giornalisti che scrivono di economia o macro-economia sui media, la facesse sugli strapagati elementi che compongono la compagine governativa, o peggio, tra coloro che occupano le sontuose poltrone del nostro malridotto Parlamento e che scrivono in nome e per conto della cittadinanza proprio quelle stesse leggi e norme che, nel tempo, hanno portato alla disgraziata situazione in cui ora la popolazione si trova.

Un giornalista che scrive “cavolate” di economia senza averne i necessari requisiti “tecnici” può al massimo fare cattiva informazione (chi se ne accorge, nel mare di cattiva informazione dilagante ovunque?), ma quando è un governativo o un parlamentare a farlo, il danno per il paese è assicurato, e oggi ne abbiamo prova certa. 

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