“I bambini hanno il diritto di formare intelligenze creative, saperi liberi e individualità riflessive e sensibili”. (In viaggio coi diritti delle bambine e dei bambini, Reggio Children). La settimana appena trascorsa ha festeggiato la giornata internazionale per l’infanzia. Il design ha festeggiato i bambini con un tema che gli è caro da un bel po’ di tempo, sebbene regole, dinamiche, conduttori e partecipanti siano negli anni molto cambiati: quello dei laboratori con l’infanzia. Tra le varie segnalazioni che ho incrociato, due specialmente mi hanno colpito. Il primo arrivava così: “sessione di design e immaginazione politica per bambini tenuta da altri bambini”. Nel secondo, l’oggetto della mail era “i bambini cambieranno il mondo”. Cavolo! Sembrava la rivoluzione. Invece no, solo due titoloni un po’ enfatici per raccontare delle esperienze invece davvero speciali offerte ai bambini di Bologna (presso Raum) e di Milano (alla libreria 121+) negli ultimi due fine settimana. Due workshop quasi opposti, nella struttura e negli obiettivi, uniti forse solo – a parte l’invocazione salvifica del titolo – intorno all’assegnazione di un mandato che denuncia bene il tempo in cui viviamo: come sopravviverci coi mezzi (innati, acquisiti e rimasti) a nostra disposizione.

Il primo, organizzato da Pathosformel, ma condotto dai bambini stessi, parte da un’idea sottrattiva – metaforizzata nel gioco della sedia – secondo il principio per cui le risorse sono limitate e il gruppo deve trovare un modo alternativo per cavarsela. T.e.r.r.y. (www.pathosformel.org) fa parte di un percorso di ricerca che da tempo questa compagnia teatrale sta curando sul tema della competizione ed è già curioso che, nonostante la altrettanto lunga consuetudine del teatro coi laboratori, nel trattamento di questo tema ci si appelli al design. Si parte da strumenti semi strutturati come delle seggioline scomponibili in materiale plastico, che dovranno tramutarsi in altro, perché da sole non bastano a contenere tutti. Non si sa in partenza che cosa succederà, e non c’è giudizio sul processo tramite cui ci si arriva (salvo il fatto che l’assemblaggio deve produrre sempre forme nuove e deve essere fatto insieme): vince il risultato (un ponte? un tunnel? una torre? un labirinto?) che funziona meglio per il suo scopo. Vince quello al quale viene accordato il maggior favore dal sistema che lo accoglie. Una specie di darwinismo del progetto.

Il secondo laboratorio invece è condotto da adulti e ruota tutto intorno a un prodotto nuovo, “Primo” (primo.me). Primo è un kit geniale, interamente in digital fabrication composto da un pannello attraverso cui il bambino può impartire dei comandi a un piccolo robot inserendoli fisicamente in una scheda di programmazione. Si rivolge ai bambini nell’età prescolare insegnando loro in modo spontaneo e tattile il linguaggio dei codici e i meccanismi base di funzionamento matematico dei nuovi device digitali, con una aspettativa prefissata su cui misurare il successo o la frustrazione dei giocatori: ognuno deve guidare Primo nella casa/Cubetto. Niente male per dei ragazzini che crescono in un Paese da qualche giorno proclamato ultimo nel rating di alfabetizzazione e penultimo in quello di capacità di calcoli elementari. La cosa più magica è la trasposizione per cui i bambini vedono animarsi quello che hanno disegnato su un altro supporto. Come veri designer.

Giocando si impara, lo sanno anche i bambini. E imparano molto anche quelli della nostra taglia che organizzano infatti questi laboratori anche per le ricadute che hanno sul proprio lavoro. Non è un caso che il gaming si stia consolidando proprio tra i grandi come una delle strategie vincenti proprio nella trasmissione di contenuti informativi e formativi. La criticità se mai è che, nello scambio tra gioco e realtà, tra grandi e bambini, al di là dell’intrattenimento, il linguaggio finisce per ricadere spesso nel vocabolario del “risultato”, della “performance”, della “strategia”. Ben venga allora restituire il gioco ai bambini tramite laboratori in cui sono loro a decidere dove si va, e giochi educativi che insegnano come andarci. Con un’unica cautela, che in questo migrare del gioco dell’infanzia non si perda però la parte migliore, cioè quella spontaneità creativa, quella possibilità di spreco, di a-finalità che – come nella citazione di partenza – “i bambini hanno il diritto di formare, attraverso ininterrotti processi di differenziazione” (anche da noi grandi).

Articolo Precedente

Egitto, a due anni dal massacro di via Mahmoud ancora impunità

next
Articolo Successivo

Carceri, volontariato e ‘gratuità’. Non sminuiamo le professionalità

next