Le prime privatizzazioni degli anni ’90 furono guidate dall’urgenza dei conti pubblici, senza una parallela liberalizzazione dei mercati. Oggi si riparla di vendita di una parte delle partecipazioni dello stato. Purché non si ricada negli stessi errori.

di Michele Polo e Riccardo Puglisi (lavoce.info)

Non solo per far quadrare i conti

Di fronte alle perplessità della Commissione europea sui contenuti della Legge di stabilità – e in particolare sulla timidezza delle privatizzazioni messe in cantiere – il presidente del Consiglio Letta ha reagito annunciando la presentazione di un piano apposito entro questa settimana.

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Tale piano si è concretizzato ieri in un programma di cessioni di quote per 10/12 miliardi, che riguarderà Eni, Stm e Enav (partecipazioni direttamente detenute dal Tesoro), Sace ,Fincantieri, Cdp Reti e Tag (partecipazioni indirette tramite Cassa Depositi e Prestiti) e Grandi Stazioni (partecipazione detenuta tramite Fs). Dopo un periodo piuttosto lungo durante il quale le privatizzazioni sono state di importo basso o “di facciata” – a motivo del fatto di avere la Cassa depositi e prestiti come acquirente -, la necessità è duplice: non solo intervenire in maniera quantitativamente decisa sul debito pubblico, ma anche offrire un segnale forte al pubblico degli investitori sulla serietà delle intenzioni del Governo italiano.
Un’obiezione importante al programma di privatizzazioni si basa sul confronto tra la redditività di aziende le cui quote si intendono vendere (nella fattispecie Eni ed Enel) e il costo del debito: secondo Bella, Di Sanzo e Mauro, se tale redditività è superiore al costo del debito, lo Stato dovrebbe piuttosto realizzare un arbitraggio finanziario e indebitarsi ulteriormente per accrescere la propria quota di proprietà. Un suggerimento che ci sembra abbastanza azzardato per un paese ad altissimo debito come l’Italia: un effetto rilevante di un programma di privatizzazioni consistente sta nel segnalare intenzioni robuste che vanno nella stessa direzione nel futuro, con la conseguenza che – se il programma è ritenuto credibile – lo spread richiesto sul nostro debito dovrebbe decrescere. In termini tecnici, non dobbiamo preoccuparci tanto del confronto marginale tra redditività degli asset da vendere e costo del debito, quanto piuttosto dell’effetto inframarginale di tale vasto programma sul costo del debito. Tanto per essere chiari: con effetto inframarginale intendiamo l’effetto sul tasso di interesse medio pagato sull’intero debito, il quale diminuisce se gli investitori aderiscono alle nuove emissioni di titoli di stato ad un tasso più basso. L’effetto leva è evidente, dati valori del debito lordo su Pil vicini al 134 percento e un rinnovo corposo di titoli di stato anno per anno.
Queste considerazioni guardano alle privatizzazioni come strumento per un riequilibrio dei conti pubblici attraverso una riduzione dello stock di debito. È la stessa prospettiva che nella seconda metà degli anni Novanta portò alla prima ondata di privatizzazioni, che toccò in primis alcune delle public utilities di proprietà pubblica, quali Telecom Italia, Enel e Eni. Guardando all’esperienza di allora, tuttavia, un giudizio diffuso, che ci sentiamo di condividere, è che le privatizzazioni vennero guidate dall’urgenza dei conti pubblici, ma non vennero realizzate in coerenza con il parallelo processo di liberalizzazione di quei mercati. Portando a soluzioni che potevano massimizzare gli introiti delle casse pubbliche, ma che spesso non configuravano un assetto di mercato funzionale alla sua apertura alla concorrenza. Il peso di queste scelte si è visto negli anni, con ritardi e distorsioni nella liberalizzazione dei mercati.
Non vorremmo che un simile errore si ripetesse oggi, associando alla medesima urgenza di allora per gli equilibri di finanza pubblica la stessa approssimazione già sperimentata nello scegliere cosa e come collocare sul mercato. Riteniamo che il payoff potenziale per il paese da queste privatizzazioni vada cercato non solo nella riduzione del debito, ma anche in uno sviluppo di mercati più aperti e capaci di innescare dinamiche di crescita e un allineamento dei prezzi a quelli degli altri paesi europei.

Cosa e come vendere

Procedendo quindi a una disamina dei principali settori potenzialmente interessati, possiamo partire da quelli energetici, dove lo Stato detiene ancora una quota di Eni e Enel e, attraverso la Cassa depositi e prestiti, una quota azionaria di controllo sulle società di rete, Snam Rete Gas e Terna. In molti casi queste società hanno generato negli anni utili che, nella forma di dividendi, hanno contribuito alle entrate dello Stato. E che, in prospettiva, potrebbero costituire un implicito freno a una maggiore apertura del mercato, laddove una accresciuta concorrenza ridurrebbe profitti e dividendi. La posizione dello Stato proprietario e al contempo custode dell’interesse pubblico potrebbe entrare in conflitto. D’altra parte, la posizione delle società infrastrutturali, Snam Rete Gas e Terna, appare da questo punto di vista diversa da quella di imprese che operano nei segmenti a monte o a valle potenzialmente in concorrenza con altri operatori, come oggi in gran parte avviene per Eni e Enel. Nel caso delle prime, infatti, sono in agenda nei prossimi anni ingenti investimenti di potenziamento delle infrastrutture, che consentano guadagni di efficienza e una maggiore apertura nei segmenti concorrenziali. E risultano cruciali, per il finanziamento sul mercato degli investimenti, un quadro regolatorio stabile e rendimenti adeguati sul capitale. Il mantenimento di una quota pubblica, attenta ai benefici di dividendi adeguati, potrebbe rappresentare la miglior garanzia che revisioni delle tariffe al ribasso non vengano attuate una volta che gli investimenti siano stati messi in campo. Una vendita delle quote di Snam Rete Gas e di Terna, al contrario, rendendo i poteri pubblici meno vincolati a un quadro regolatorio stabile e sufficientemente remunerativo, potrebbe comportare un aumento del costo del finanziamento e un impatto negativo sugli investimenti. Diversa la situazione per le società che operano nei segmenti in concorrenza, dove l’esigenza pubblica dovrebbe essere maggiormente orientata allo sviluppo della concorrenza, e in cui quindi la quota azionaria pubblica attenta ai dividendi potrebbe frenare il processo, suggerendone quindi la cessione.
Nelle telecomunicazioni, oggi, lo Stato non ha più nulla da cedere; casomai, sembra ciclicamente affacciarsi la prospettiva di una nuova entrata nel capitale di Telecom Italia per finanziare gli investimenti nella rete broadband. Abbiamo discusso di questi temi recentemente, e a quel contributo rimandiamo.
Le due grosse voci che potrebbero essere invece oggetto di privatizzazione sono rappresentate dalle poste e dalle ferrovie. E tuttavia in entrambi i casi la struttura attuale dell’impresa pubblica richiede, assieme alla privatizzazione, un profondo intervento di ridisegno dei confini, delle attività e del regime di erogazione dei servizi. In assenza di questo, finiremmo per creare dei monopoli privati fortemente distorsivi.
Poste Italiane oggi opera con diverse funzioni e su una pluralità di mercati. Promuove la raccolta del risparmio postale, alimentando le attività della Cdp; svolge un servizio pubblico per alcuni dei servizi postali; è entrata in modo aggressivo nei servizi bancari, assicurativi e di telefonia mobile. Per il comparto bancario e assicurativo, le specificità dell’operatore Poste Italiane l’hanno sottratta a una serie di vincoli ed esclusa da alcuni servizi. Ma difficilmente l’anomalia potrebbe permanere a valle di una privatizzazione. Né, d’altra parte, è chiaro per quali ragioni tutte le attività dovrebbero rimanere integrate in un unico gruppo multiservizio. Senza affrontare questi temi, appare difficile procedere a una privatizzazione.
Per le ferrovie il discorso è analogo: il gruppo Ferrovie dello Stato opera attraverso diverse società per la parte infrastrutturale (Rete Ferroviaria Italiana, Grandi Stazioni, quest’ultima “in odore” di privatizzazione secondo le ultime notizie di cui sopra) e per i servizi (Trenitalia, Trenitalia Cargo), con una integrazione verticale del tutto inadatta all’apertura alla concorrenza di alcuni segmenti di servizi (alta velocità, merci). È inoltre di recentissima istituzione una Autorità di regolazione, tuttora in fase di start up, e manca completamente una separazione contabile tra attività di monopolio e attività in concorrenza, che rappresenta la precondizione per evitare comportamenti distorsivi e predatori dell’impresa dominante. Insomma, anche per le ferrovie una privatizzazione precipitosa rischierebbe di compromettere le prospettive di liberalizzazione del settore.
Ovviamente, questo pezzo non deve essere interpretato come una serie di buone ragioni per non fare nulla. Ma, al contrario, come un invito a mettere nel giusto ordine i passaggi di una politica di liberalizzazione e di privatizzazione, che sono intimamente legati, ma debbono rispettare una rigorosa gerarchia. L’urgenza di un riequilibrio dei conti pubblici deve spingere a mettere mano rapidamente a un riassetto delle imprese per renderle compatibili con la liberalizzazione, in modo da predisporre le condizioni per una privatizzazione che non generi mostri.

*Ha svolto i suoi studi presso l’Università Bocconi e la London School of Economics. E’ professore Ordinario di Economia Politica presso l’Università Bocconi. Ha trascorso periodi di ricerca a Lovanio, Barcellona, Londra e Tolosa. I suoi interessi di ricerca riguardano l’economia e la politica industriale, l’antitrust e la regolamentazione.

**Ha studiato all’Università di Pavia (dottorato in finanza pubblica) e alla LSE (PhD in economia). Dopo essere stato visiting lecturer al dipartimento di scienze politiche del Massachusetts Institute of Technology e Marie Curie Fellow all’ECARES (Université Libre de Bruxelles), attualmente è ricercatore in economia politica all’Università di Pavia. Si occupa principalmente di political economy, ed in particolare del ruolo politico dei mass media.

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