Dopo la separazione, il divorzio. Dopo l’en plein a Berlino e l’Oscar miglior film straniero con Una separazione, l’iraniano Asghar Farhadi ritorna su coppia e conflitti, ma rincara la dose con due p(a)esi e due culture: Le passé (Il passato) si gioca tra Iran e Francia, divorzio e conseguenze, unione e dolore. Nel cast, il marito Ali Mosaffa, la moglie Bérénice Bejo (The Artist) e Tahar Rahim (Il profeta), Farhadi scavalla i confini, ma non le geometrie relazionali: l’Iran cinematografico oggi è lui, import/export d’autore.

Con un’avvertenza: non vuole emuli né epigoni, perché l’exemplum di Kiarostami scotta ancora. “Abbas è stato un riferimento, ma in troppi ne hanno poi fatto copia e incolla: spero le nuove leve prendano la propria strada, senza imitare nessuno”. Forse non geo-politicamente simbolico come il predecessore, ma scrittura, direzione d’attori, puzzle psicologico e tessuto morale anche qui sono eccellenti: Pirandello gli avrebbe fatto un monumento, e chi ama la settima arte, quella che destabilizza, chiede e non risponde facile, può ancora offrire la prima pietra. Parte dal passato, Farhadi, ma mette due occhi sul presente, perché scurdammoce o’ passato in farsi non si traduce: “Il passato non esiste, la mente trasforma i ricordi, e così nascono i malintesi”.

Al centro, lei, la Bejo, premiata a Cannes (forse al di là dei suoi meriti): “Le donne sono il segno del cambiamento, forse perché partoriscono e hanno insita l’idea del futuro, mentre gli uomini incarnano fissità e tradizione”, commenta Farhadi, che del femminile ha fatto il genere esistenziale e ideologico del proprio cinema, basti pensare, accanto a Una separazione, ad About Elly. Ma che racconta Il passato? Un ritorno, quello di un marito non prodigo. Dopo quattro anni di separazione, Ahmad (Mosaffa) torna da Teheran a Parigi, chiamato dalla francese Marie (Bejo): obiettivo, non il “rivivremo felici e contenti”, perché Farhadi le fiabe non le ha mai raccontate, bensì la procedura di divorzio da perfezionare. 

Durante il soggiorno, Ahmad scopre molte cose, tra cui la conflittualità del rapporto esistente tra Marie e la figlia Lucie e, soprattutto, conosce il nuovo compagno della donna, Samir (Rahim). Anche Samir non è “‘ libero”: ha qualche scheletro nell’armadio, e una moglie in coma che “manifesta con chiarezza quel dubbio che attanaglia tutti. Lei non può difendersi né parlare di sé, mentre tutti ne parlano: accadeva già alla protagonista di About Elly, forse è una costante del mio cinema”. Già quello di Farhadi è il cinema del dubbio: la scomparsa del futuro (Elly), il futuro a scomparsa (Una separazione), una mano che si muove o forse no (Il passato). Farhadi non ha certezze, fuorché una: dubitare di tutto, non per una volontà relativistica, bensì per intercessione del caso e, insieme, del libero arbitrio.

È cinema umanista, il suo, che proprio nella mancanza di libertà ne trova il desiderio e la speranza: “In Iran non c’è sufficiente libertà, ma non è detto che fuori ci sia: in Occidente esiste solo l’immaginario della libertà, le persone sono convinte di essere libere, ma non lo sono. Se nel mio Paese si lotta con la censura, in America c’è una censura ancora più forte: il capitale, la finanza”. Farhadi fa professione di fede nel pauperismo, meglio, nell’austerità: non concede allo spettacolare, non si fa prendere la mano dall’affabulazione, non sperpera il suo capitale poetico, non trascolora in terra straniera la sua glocalità. “Non me ne sono andato in Francia per essere libero, ma perché la storia mi portava lì. E ho applicato lo stesso sistema di sempre: se sei abituato a camminare su un terreno accidentato, ti muovi allo stesso modo sull’asfalto”. Da vedere, riflettere, conservare.

Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2013

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