Ore otto e mezzo avrebbe dovuto suonare la campanella per l’entrata a scuola. Ore otto e mezzo di oggi, tutti i ragazzi di Olbia hanno preso le scope di casa, indossato una tuta, messo scarponi da pioggia e sono arrivati nella zona disastrata per dare una mano. Non c’è bisogno di dire grazie, nessuna necessità di una parola, di un abbraccio, niente di tutto questo: sono a lezione di solidarietà, imparano cosa vuol dire far parte di una comunità colpita a morte. Eccoli schierati, insieme ai proprietari delle case colpite, a volte distrutte, macerie, mobili sparsi, materassi messi ad asciugare, vestiti ammassati, finestre divelte. La maggior parte delle auto sono state rimosse, altre sono in mezzo alla carreggiate, qualcuna appoggiata addosso a un muretto, anche in questo caso il fango indica la gravità di un percorso. Il signor Roberto ci invita a entrare dentro casa, ha gli occhi inespressivi di chi è sotto choc, ripete in continuazione di come è stato impossibile fuggire dalle sue mura, di come si è salvato a nuoto, per poi salire sul tetto dei vicini. Anche i vicini sono con lui a spalare a cercare qualcosa da salvare. Quasi nulla, purtroppo. “Ma oggi saremo tutti lì al palazzetto per il funerale”. Si aspettano migliaia di persone per dire addio, magari poter tirar fuori quelle lacrime ancora sepolte dal fango. Poi si ricomincerà a ricostruire, senza aspettare lo Stato  di Alessandro Ferrucci e Davide Mosca

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