Una giornalista interessata al problema del linguaggio sessista, mi diceva che dopo tante resistenze, la parola femminicidio era stata finalmente adottata dalla stampa e dalla televisione. E questo è vero. L’hanno adottata ma come un cattivo genitore che poi ne abusa. La parola “femminicidio” è spesso svuotata del suo significato originario e utilizzata a sproposito nelle notizie di cronaca che sciorinano i soliti vecchi cliché sulla violenza contro le donne. Quelli che potevamo leggere sui giornali dell’Italia degli anni ’50, e che continuiamo a leggere o ad ascoltare ancora oggi. Nei giorni scorsi l’immaginario sessista della stampa ha trasformato una vicenda di uomini che avevano abusato sessualmente di ragazze minorenni, prostituite da adulti senza scrupoli, in una storia di “clienti adescati da lolite peccaminose e assetate di denaro e cocaina”.

Domenica 17 novembre durante l’edizione serale del Tg 1 della Rai, abbiamo avuto un esempio di un’ altra trasformazione: la violenza a una donna è diventata un “dramma della gelosia”. Laura Chimenti, la giornalista in studio, annuncia nei titoli: “strangola la moglie e si uccide vicino ad Ancona forse un raptus di gelosia”, parte il servizio di Valentina Di Virgilio su Stefania Allodi, accoltellata e poi strangolata dal marito con il tubo della doccia.

Diego Malavolta che uccide e poi si suicida viene definito “innamoratissimo, tranquillo, riservato”: con un unico difetto “il tarlo della gelosia”. La relazione viene raccontata come un rapporto di coppia con “frequenti litigi”. Viene specificata la differenza di età: “era più giovane di diciassette anni”, poi seguono i commenti dei parenti, persone semplici e addolorate, buttate in pasto alla telecamera. Il fenomeno della violenza contro le donne è già scomparso, romanzato come il “tragico destino di una storia di amore e gelosia”. Un po’ di solletico al voyeurismo del dolore altrui, un invito a illazioni per la differenza di età tra aggressore e vittima e il noir è servito al pubblico, ma non la consapevolezza del problema della violenza contro le donne nelle relazioni di intimità.

L’associazione D.i.Re ha pubblicato una lettera inviata a Mario Orfeo, direttore del Tg1 e a Valentina Di Virgilio, per protestare contro quel modo di fare cronaca. Non si può raccontare l’uccisione di una donna come l’atto di un uomo innamoratissimo e tranquillo, e nascondere con la parola “lite” una relazione costruita con molta probabilità sul controllo, e  pressioni psicologiche. Il femminicidio non avviene come un fulmine a ciel sereno in una relazione di affetto e amore, ma è sempre l’atto estremo e finale di giorni, mesi ed anni di maltrattamenti. L’informazione corretta deve spiegare, chiarire, ripetere che il controllo e il senso di possesso non sono componenti dell’amore, l’amore è fatto di altro. Altrimenti come si può sensibilizzare e insegnare a riconoscere la violenza?

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