E’ famoso l’aneddoto di quando, nel 2007,  Doris Lessing (nata in Iran, vissuta  in Africa, figlia di un impiegato  e di un infermiera) vinse il Nobel per la Letteratura. Tornava a casa con le borse della spesa nel suo quartiere di Londra: si sedette sui gradini e, davanti ai tanti giornalisti che l’aspettavano, esclamò: “Oh Cristo!”. La foto del suo volto tondo da bambina, solcato di rughe, i capelli grigi spettinati, gli occhi vispi e stupefatti, fece allora il giro del mondo; oggi in ogni libreria ci guarda il bel volto di Alice Munro,  Premio Nobel 2013.

Doris Lessing è morta ieri, nel sonno, a 94 anni. Più o meno la stessa età che aveva il personaggio di Maudie in Il diario di Jane Somers, il libro che me l’ha fatta conoscere. Sulla copia della mia vecchia edizioni Feltrinelli c’è scritto: “regalato da zia Teresa, maggio 1986. Bellissimo”.

Ricordo che mi aveva  intrigato la beffa ordita dalla Lessing con quest’opera. Una volta finiti i due romanzi, The diary of a good Neighbour (tradotto appunto in italiano con Il diario di Jane Somers) e  If the Old Could, li pubblicò con lo pseudonimo di Jane Somers. La critica li ignorò e i romanzi sembrarono morti appena nati. Quando l’autrice, già celebre e con alle spalle decine di romanzi, in una sorprendente intervista ne rivendicò la maternità, ci fu un tardivo e ipocrita mea culpa dei recensori e i libri ebbero un immediato successo.

Questo fatto la dice lunga sull’insofferenza della Lessing verso i pregiudizi e la superficialità di certa critica letteraria. Altrettanto forte della sua allergia alle etichette ideologiche che più volte tentarono di attribuirle, prima di tutte quella di “femminista”. 

Ne Il diario di Jane Somers, tradotto magistralmente da Marisa Caramella, Maudie, la vecchia che Jane, quarantanovenne rampante caporedattrice di una rivista di moda, incontra in una farmacia, vive sola, in una casa disordinata e sporca, assorbita dalle sue fissazioni senili, i malanni e il passato. Jane ne diventa amica al limite dell’ossessione; dal momento dell’incontro non esisterà più un istante in cui il suo pensiero non corra alla vecchia solitaria; appena può va da lei. Il romanzo mi apparve allora, ero giovane, anche un’interessante riflessione sulla vecchiaia e la morte. Leggendolo avevo la sensazione che la scrittrice mettesse in scena, attraverso il personaggio di Maudie, le paure e le angosce di chi vede la vecchiaia avvicinarsi. Sono rimasta della stessa opinione; ma oggi che la vecchiaia è più vicina, colgo l’abilità incredibile della Lessing di essere riuscita a dare a questa riflessione uno stile romanzesco così avvincente; esorcizzando magistralmente quella paura che oggi, io stessa, sento di avere.

Maudie, un “mucchio di ossa perdute in un letto”, muore in un ospedale, assistita da Jane (struggente la frase che la vecchia, piegata dal cancro, le ripete ossessivamente: “tirami su, tirami su”; la sottolineai con una penna nera) e da infermiere distratte; le loro vite dure, complicate, spesso tristi le rendono incapaci di capire la spasmodica fame di vita della vecchia malata.

Per fortuna la scrittrice se ne andata nel suo letto, immersa nel sonno, tra le sue cose. Vorrei concludere con Il sogno più dolce, pubblicato in Italia 2002.  Nella Nota l’autrice lo presenta così: “Spero di essere riuscita a ricreare lo spirito degli anni sessanta, quel periodo contraddittorio che adesso, ripensandoci e confrontandolo con quello che è venuto dopo, ci sembra sorprendentemente innocente. C’era ben poco della protervia degli anni settanta, o della fredda avidità degli anni ottanta”. Se vado a cercare nella memoria un’immagine che condensi il libro, vedo il tavolo della cucina descritto nel romanzo. Attorno a questo si alternano gli amici e i figli di Julia Lennox, matriarca accogliente e in grado di  far fronte a piccole e grandi tragedie. Nella sua cucina i ragazzi discutono, si amano, si odiano. Sognano. Mai un gesto di indifferenza, di menefreghismo.

A commento del libro scrissi, dieci anni fa, questa riflessione. “C’è una brutta tendenza in certi esseri umani che letteratura come questa riesce a sconfiggere. E’ quella tendenza a vedere, sempre e ovunque, dietro una speranza o un sogno, solo schifezze e disillusione. Questi disgraziati individui hanno il potere di spegnere sul nascere ogni scintilla. Di avvilire ogni gesto creativo. Dietro i personaggi di questa autrice c’è invece una speranza che alimenta intelligenza, acutezza; in una parola: luce. Questa luce rende il lettore meno ottuso, lo rende migliore”. Mi è venuta subito voglia di  rileggerlo e di rinnovare la gratitudine per Doris Lessing che provai  allora. 

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