Bisogna fare come i media durante il nazismo, quando era necessario adottare forme di autocensura per continuare a lavorare. Così, il caporedattore di Bloomberg avrebbe spiegato ai propri dipendenti la cancellazione di un’inchiesta scottante, dovuta alla necessità di rientrare nelle grazie del governo cinese.

Secondo New York Times e Financial Times, l’agenzia di informazioni economiche avrebbe bloccato all’ultimo minuto la pubblicazione di un articolo sui legami del più ricco uomo cinese con le alte sfere del modo politico di Pechino, compresi membri del comitato permanente del Politburo: la “stanza dei bottoni” che di fatto governa la Cina. Il businessman in questione sarebbe Wang Jianlin, il fondatore del gruppo immobiliare Dalian Wanda, che secondo Forbes ha un patrimonio di oltre 14 miliardi di dollari.

Era finito nel mirino della redazione Bloomberg di Hong Kong. Secondo testimonianze di anonimi redattori, il 29 ottobre, il caporedattore Matthew Winkler avrebbe spiegato in una conference call con i giornalisti che, se pubblicata, l’inchiesta avrebbe rischiato di fare espellere l’agenzia dal suolo cinese. In seguito ha negato, dichiarando che la storia “non era pronta” per la pubblicazione; circostanza che le “gole profonde” continuano però a smentire. All’interno della redazione – dicono le fonti anonime – esisterebbe un “codice 204” con il quale verrebbero marcate le notizie politiche che non devono essere diffuse in Cina continentale, perché potenzialmente sgradite all’establishment.

Il principale business dell’agenzia consiste nella vendita di dati economici attraverso i propri terminali. L’abbonamento per accedervi costa 20mila dollari l’anno. È una fonte di revenues importante, integrata dalla diffusione di informazioni sia economiche sia di attualità in forma più divulgativa. Nel giugno 2012, Bloomberg aveva fatto uno scoop sulle ricchezze della famiglia dell’attuale presidente Xi Jinping, senza rivelare episodi di malaffare, ma andando comunque a scavare nel patrimonio del clan Xi. Da allora, l’accesso al sito dell’agenzia è bloccato in Cina e le vendite degli abbonamenti ai terminali sono in calo. I funzionari cinesi – riporta il New York Times – hanno ordinato ad alcune imprese statali di non sottoscrivere. Tuttavia, il governo di Pechino ha poi rinnovato a Bloomberg la licenza, così come i visti ai suoi giornalisti.

La vicenda rientra anche a pieno titolo nella guerra tra i media corporate anglosassoni, che si contendono autorevolezza sulle cose cinesi. Il New York Times, che oggi rivela i retroscena di Bloomberg, è lo stesso giornale che, pochi mesi dopo lo scoop su Xi Jinping, ne pubblicò un altro sulle ricchezze dell’allora premier Wen Jiabao. In ritardo sul concorrente, ma scoprendo intrallazzi più verosimili e soprattutto, alla vigilia del congresso che cambiò la leadership cinese. Da allora, anche il sito del New York Times è bloccato in Cina. Secondo i rivali, Bloomberg vorrebbe oggi preservare – oltre agli abbonamenti – anche la propria agibilità sul suolo cinese nel raccogliere news finanziarie destinate al mercato globale: un servizio fondamentale per chi vuole monitorare l’economia della seconda economia mondiale. Dopo la pubblicazione dell’articolo sulle ricchezza della famiglia Xi, ad alcuni giornalisti di Bloomberg era stato negato l’accesso alle conferenze stampa ufficiali: un vero e proprio svantaggio competitivo nei confronti della concorrenza.

di Gabriele Battaglia

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