Andrea Orcel, Ceo di UBS Investment Bank nel 2012 ha percepito un bonus d’entrata da 26 milioni di Franchi svizzeri (oltre 21 milioni di euro). Nel 2009 Brady Dougan, a capo di Credit Suisse, ha dichiarato un reddito record da 75 milioni di euro. Lo scorso anno l’amministratore delegato di Novartis, Joseph Jimenez, ha guadagnato oltre 13 milioni di franchi, mentre Peter Brabeck di Nestlé ne ha incassati più di 7.

Cifre che fanno girare la testa persino nella ricca Svizzera, dove i top manager delle grandi aziende guadagnano sempre di più in rapporto al salario dei loro dipendenti. È di fronte a questi numeri che i giovani socialisti dello Juso hanno formulato l’iniziativa “1 a 12 per salari più equi”. Un referendum su cui gli svizzeri si dovranno esprimere il prossimo 24 novembre per decidere se fissare per legge un tetto allo stipendio dei manager che, in caso di successo, non potrà superare di oltre dodici volte il salario minimo riconosciuto dalla stessa impresa. Un po’ come se in Italia Luca Cordero di Montezemolo, Marco Tronchetti Provera o Sergio Marchionne per legge non potessero guadagnare più di 240 mila euro l’anno, benefit compresi.

Una prospettiva che ha scatenato una generale levata di scudi a difesa della libera iniziativa e contro le ingerenze dello Stato nell’economia. Ingerenze che, come ricorda il vicesegretario dello Juso Filippo Rivola, “non sono state un problema nel recente passato”, quando in pieno scandalo sub-prime “nessuno di questi signori ha protestato per il maxi prestito da 60 miliardi di franchi accordato dal Governo alla banca nazionale per salvare Ubs dal fallimento”, il tutto mentre i vertici delle banche continuavano a incassare lauti compensi. Quella stortura ha dato il “la” ai giovani dello Juso, che hanno raccolto le firme necessarie a promuovere il referendum: “Ne servivano 100 mila, alla fine ne sono state convalidate 117 mila, tutte trovate per strada, con i nostro piccoli mezzi”.

L’iniziativa 1:12 ha incassato una sfilza di critiche da partiti politici e associazioni di categoria. Ma non solo. Il Consiglio e l’Assemblea federale (il governo e il parlamento), chiamati a esprimersi su ogni proposta, hanno bocciato l’iniziativa, invitando il popolo a votare No, perché “una simile legge indebolirebbe il mercato del lavoro” oggi basato su un sistema molto flessibile. Inoltre, se l’iniziativa venisse accettata “le grandi imprese con i top manager potrebbero lasciare il paese”. Secondo Toni Brunner, presidente del comitato per il No, l’invidiato benessere svizzero “non è scontato” e quindi “va difeso”. Bernhard Salzmann, portavoce dell’Sgv (l’associazione delle Pmi svizzere), ha posto l’accento sul fatto che i manager super pagati sono poche decine e “certamente troveranno soluzioni per aggirare la regola”, privando però le casse dello stato di importanti risorse che oggi vanno a vantaggio dei meno abbienti.

Le 300 imprese svizzere quotate in Borsa (lo 0,15% del totale) impiegano circa il 20% della forza lavoro, producono il 31% delle esportazioni e oltre metà delle spese di ricerca e sviluppo. Numeri importanti di fronte ai quali i poteri forti agitano lo spauracchio della delocalizzazione, facendo leva sulle paure del cittadino medio. Tuttavia i segnali di cambiamento sono evidenti. Gli stipendi scandalosi non piacciono all’uomo della strada e lo si è capito con l’iniziativa Minder, quella approvata – sempre per via referendaria – lo scorso marzo, che ha imposto un aumento del controllo da parte degli azionisti sui Cda delle aziende, anche in materia di retribuzioni. Inoltre non tutti i manager bocciano la proposta. Alexandre Bennouna, Ceo di Victorinox Watch – 120 dipendenti, 100 milioni di fatturato e una radicata tradizione nel campo della responsabilità sociale d’impresa – ha dichiarato pubblicamente il proprio sostegno all’iniziativa: “Ogni lavoro merita di essere pagato. Un quadro ha delle responsabilità, situazioni difficili da affrontare ed è quindi ricompensato di conseguenza. Ma il dirigente è nulla senza la sua squadra”. Secondo Bennouna il divario salariale è necessario di fronte a diversi livelli di responsabilità, tuttavia “deve rimanere dentro una forbice che corrisponde bene all’impegno di ognuno”.

Oggi la Svizzera è un paese molto diverso da quello che alberga nell’immaginario collettivo. Nella Confederazione ci sono crescenti sacche di povertà relativa, come spiega il sindacalista Igor Cima (Unia), che sostiene il Sì al referendum: “La situazione dagli anni Novanta in poi è peggiorata e non è vero che qui stanno tutti bene”. Tra affitti alle stelle e premi assicurativi sempre più alti, i salari non bastano più: “Esistono differenze retributive enormi, anche tra i diversi cantoni”.

L’esito del voto sull’iniziativa 1:12 non è per nulla scontato. Gli ultimi sondaggi parlavano di un testa a testa con un elevato numero di indecisi. Non c’è quorum ma per centrare il risultato occorre una doppia maggioranza (di votanti e di cantoni) e la statistica sta con i conservatori.

In Svizzera si votano ogni anno una decina di referendum sui temi più disparati e in più della metà dei casi hanno vinto i No. Si è votato ad esempio contro la costruzione di nuove moschee, per l’esportazione di armi e contro il divieto di fumo nei locali. Tra i quesiti di novembre anche quello che fisserà il nuovo prezzo del bollino autostradale. In Italia l’esito sarebbe scontato, tutti contro l’aumento, ma gli elvetici potrebbero invece votare per il rincaro. Insomma, in Svizzera chiunque può proporre un testo da sottoporre al giudizio del popolo e l’esito è vincolante.

Comunque vada il referendum sugli stipendi dei top manager nella partita per l’equa distribuzione della ricchezza resta ancora molto da giocare, tanto che a Berna si parla già di salario minimo garantito e reddito di cittadinanza.

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