La notizia è importante, ma non sta circolando quanto merita: durante la riunione del consiglio dei ministri dell’8 novembre scorso è iniziata la discussione di un nuovo disegno di legge per dare  al Governo “un’ampia delega al riassetto di istruzione, università e ricerca”. L’ambito del “riassetto” include aspetti cruciali: il reclutamento e le carriere, i finanziamenti, le tasse universitarie, l’autonomia e i regolamenti di scuole e atenei. Se questa legge passerà, il governo avrà il potere di riscriverli in autonomia, senza ulteriori voti parlamentari, sottraendo in toto questa riforme a quel poco di dibattito politico che ancora resta nell’Italia delle larghe intese.

Su quello che attende la scuola vi potete informare grazie all’articolo di Marina Boscaino: per quanto riguarda l’università il testo del DdL è consultabile qui. Per cominciare, si delega al governo “l’introduzione di incentivi e sanzioni basati sui risultati della gestione”. Cosa si intenda per “risultati della gestione” non si sa: sicuramente i precedenti (la VQR, i premi in punti organico agli atenei con le tasse studentesche più alte) non lasciano ben sperare. Di certo, si abbandona sempre più il principio secondo cui il sistema universitario debba offrire un servizio il più possibile omogeneo sul territorio italiano. La valutazione e i finanziamenti non verranno infatti usati per riequilibrare le differenze, ma per accentuarle tramite la competizione; i fondi per gli incentivi verranno dai proventi delle sanzioni (da questo provvedimento “non dovranno risultare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”). Il risultato sarà quello di accelerare ulteriormente la distinzione in atenei di serie A e di serie B,  accentuando le penalizzazioni dei territori e degli studenti residenti in zone prive di atenei “top”.

Leggendo oltre, si scopre che è prevista “l’incentivazione di finanziamenti privati, anche con maggiore libertà di spesa” e “la semplificazione del finanziamento privato di posti di docente”: le politiche di ricerca e didattica saranno quindi (ancor più di adesso) orientate a venire incontro a ciò che è più gradito ai potenziali investitori, molti dei quali stanno spingendo da tempo per trasferire i loro costi di formazione del personale sul sistema pubblico. Inoltre, chi trarrà vantaggio competitivo dallo spalancarsi ai privati saranno ovviamente gli atenei dei territori più ricchi, aumentando ulteriormente le differenze. Per le tasse studentesche è prevista una revisione del tetto massimo, e la clausola di invarianza finanziaria fa pensare che non sarà una revisione al ribasso.

Un’altra idea particolarmente insidiosa per l’equilibrio del sistema è la portabilità dei finanziamenti per la ricerca: in pratica, i docenti titolari di fondi di ricerca potranno scegliere in quale ateneo andare a lavorare. Per capire la gravità di questa trovata, immaginatevi che succederebbe se i medici potessero liberamente scegliere l’ospedale nel quale andare a lavorare. chi garantirebbe l’uniformità e la qualità del servizio sul territorio? Ovviamente questa trovata è estremamente gradita ai docenti, che potranno scegliersi la sede che preferiscono: ma disastrosa per i territori e per gli studenti degli atenei che verranno abbandonati, con loro dentro. Un altro esempio dell’abilità del governo di mettere una componente universitaria contro l’altra, per evitare pericolose coalizioni di protesta.

Particolarmente inquietanti i passaggi sul reclutamento: il ministro è delegato a ridurre il “numero di figure” di ricercatori, introducendo “maggiore flessibilità nella selezione“. Un indizio della comparsa di forme di cooptazione? Dato che attualmente il reclutamento è nelle mani dei soli ordinari, questa “flessibilità” si può facilmente tradurre, in vari casi, nel peggioramento degli arbitrii. E’ menzionata anche l’abilitazione scientifica nazionale, per la quale è prevista l’introduzione di “meccanismi volti a contenere il numero dei partecipanti e degli abilitati”: non si prospetta quindi un riassorbimento della massa di precari. Facile prevedere un ulteriore inasprimento delle famigerate mediane e di criteri addizionali che accrescerà le distorsioni dovute all’uso della bibliometria e, ovviamente, il potere delle commissioni di abilitazione (di soli ordinari).

Insomma: a neanche tre anni dalla legge Gelmini siamo da capo. Si imprime un’ulteriore spinta verso l'”eccellenza” e il privato con tutto ciò che (ormai si comincia a capire) ne consegue; una stretta su reclutamento e carriere; il consueto aggravio di lavoro burocratico che ogni riforma porta con sé. Ovviamente, neanche un euro in più è previsto: il che suggerisce che gli stipendi dei lavoratori dell’università, fermi dal 2010 (e compresi nel FFO), potrebbero rimanere bloccati a tempo indeterminato. I dettagli sono ignoti, ma una cosa è certa: il governo vuole affidare al ministro Carrozza (la pasionaria del privato) il futuro del sistema universitario pubblico,e con esso un bel pezzo del futuro del paese. Ci mettiamo l’elmetto e cominciamo finalmente a reagire?

Aggiornamento del 18 novembre: oggi il Miur ha dichiarato, “a seguito delle notizie di stampa”, che il testo della legge delega di cui sopra “è da ritenersi del tutto superato“. Ottimo a sapersi.. ma in attesa di conoscere la nuova versione preferisco continuare ad indossare l’elmetto!

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