A distanza di quasi due mesi dalle elezioni la Germania ancora non ha il suo nuovo governo. La ragione? A Berlino quando i due più grandi partiti dell’arco costituzionale decidono, dopo i risultati delle urne, di formare loro malgrado una coalizione di governo, prima di nominare cancelliere e ministri si deve stilare un programma condiviso che metta in chiaro cosa si farà assieme nei successivi 4 anni. E così, nonostante ad Angela Merkel manchino solo 5 seggi per avere la maggioranza assoluta in Parlamento, i cristiano democratici della Cdu assieme ai loro cugini bavaresi della Csu, sono costretti a sedersi accanto ai socialdemocratici dell’Spd e preannunciare quelli che saranno gli obiettivi della loro alleanza. Rimarrà lo spazio per improvvisare e le contingenze del futuro potranno fare cambiare alcune idee ed indirizzi, ma bisogna avere un testo di base da cui partire per evitare che i successivi 4 anni si passino discutendo ogni volta su ogni questione.

E così, da tre settimane, un comitato ristretto all’interno degli iniziali 75 rappresentanti dei tre partiti, si riunisce quasi quotidianamente per raggiungere quella serie di compromessi necessari per andare avanti e dare il via al nuovo governo. La questione più spinosa finora è quella del salario minimo nazionale che l’Spd fosse fissata a 8,50 euro all’ora. E’ stato uno dei temi portanti della campagna elettorale dei socialdemocratici e la sua approvazione serve al segretario di partito Sigmar Gabriel per dimostrare ai propri elettori di avere comunque ottenuto un qualche tipo di vittoria nonostante la sconfitta elettorale. Affinché si trovi un accordo di questo genere l’Spd ha finora lasciato perdere l’idea di proporre un aumento delle tasse per i più ricchi per coprire quell’aumento della spesa pubblica previsto per i prossimi anni per rilanciare la domanda interna e dare seguito a molte delle promesse elettorali fatte da entrambi i partiti (potenziamento della banda larga ed innalzamento sia dei contributi alle famiglie che delle pensioni minime). Il salario minimo sta dividendo di fatto la Germania.

Da una parte i liberisti parlano degli effetti disastrosi che avrebbe sulla disoccupazione (si andrebbero a perdere tra i 450mila ed un milione di posti di lavoro secondo un recente studio della Deutsche Bank), dall’altro è indubbio che una riforma di questo tipo riuscirebbe finalmente a rendere più chiara la situazione del mercato del lavoro tedesco, andando a scoprire tutta quella finta occupazione composta da mini job e lavori part-time che spesso, quando non raggiungono un livello minimo di sopravvivenza, vengono integrati dai sussidi statali. Chi abita in Germania ha più volte occasione di confrontarsi con storie di giovani e meno giovani assunti con contratti flessibili e, almeno ufficialmente, da poche ore alla settimana che però di fatto si rivelano a tempo pieno e pagati parzialmente a nero. Una soluzione utilizzata sia da alcune, soprattutto piccole imprese, per evitare di versare contributi previdenziali ed assicurativi che da alcuni lavoratori che possono così dichiarare meno di quanto effettivamente guadagnato ed avere diritto a sussidi o sgravi fiscali.

Insomma, nonostante a volere un mercato del lavoro più fluido fosse stato proprio quel governo socialdemocratico tenuto da Gerhard Schröder che nel 2003 diede vita alla discussa Agenda 2010, l’Spd auspica ora una riforma che si ispiri in parte al modello francese dove il salario minimo è di 9,43 € l’ora. Con un tasso di disoccupazione vicino ai minimi storici (6,8 per cento secondo gli ultimi dati del Federal Labour Office), resta da capire se la Germania sarà pronta a gettare la maschera sul proprio mercato del lavoro.

Articolo Precedente

Bce, cosa può fare per contrastare ‘la trappola della liquidità’

next
Articolo Successivo

Crisi, la questione tedesca e quel simpatico di Barroso

next