Itempi sono cambiati. Abbiamo una nuova classe dirigente. Qualche volta ci sono difficoltà a riconoscerla, o commettiamo l’errore di rifiutarla, perché alcuni, che sembrano nuovi membri, vanno a picco in tempi brevissimi. Ma il nuovo c’è, cominciando dai figli. Familismo? Certo, in Italia resiste. Ma l’ammissione funziona anche in un altro modo.

Un buon esempio (anzi un esempio di rara chiarezza dovuta alla sincerità di un ministro) lo abbiamo avuto nel caso Ligresti-Cancellieri. Il caso ci dice che si diventa “classe dirigente” per censo (si tratta di avere, ma anche di pretendere) e per “cooptazione”, nel senso che dai affidamento e qualcuno ti sceglie. Nel caso Ligresti-Cancellieri, abbiamo trovato fianco a fianco i due casi, compresi i figli, sui due versanti: figli di padroni e figli – bravi – di cooptati).    Prendiamo il primo, il nucleo familiare Ligresti. Ci dice che uno dei mezzi per entrare nel gruppo “classe dirigente” è l’irruzione. Diventi abbastanza ricco e reclami i tuoi diritti per stare con coloro che decidono. In questo senso Ligresti assomiglia a Berlusconi, paga e comanda (anche se poi scelgono percorsi diversi per contare). L’irruzione è piuttosto praticata. Da chi può, ovviamente, se si pensa a quando Antonio D’Amato conduceva la Confindustria e ha messo il convegno degli industriali italiani (anno 2001, a Parma) a disposizione piena e completa del candidato Silvio Berlusconi (“Il mio programma è il vostro, il vostro il mio”, scrosci di applausi).   

Non sempre avviene con turbolenze o con traumi o fondazione di partiti che vogliono anche il potere istituzionale. Bastano mezzi e celebrità, e a un certo punto si vedono presenze, citazioni, interventi, frasi dette e da ricordare. E appaiono, come d’incanto, scorte e carabinieri d’onore, persino alle feste private, per sanzionare l’ingresso di nuovi soci. Eppure questa è la parte meno interessante e più nota perché, salvo il modo in cui si forma la ricchezza, tutto è, e deve essere, pubblico e i media sono molto sensibili a questa esigenza (che include visibilità di figlie, compagne, matrimoni, vacanze, abitazioni, trasporti, bei bambini).   

Più interessante, perché quasi segreta e sfasata nel tempo (può avvenire da molto giovani, oppure per circostanze fortunate, per transito professionale nel luogo giusto) è la cooptazione. Di nuovo ci serve il caso Cancellieri. Ci sono tanti prefetti, ma lei dà affidamento e oltrepassa una invisibile striscia rossa che divide fra di qua (fai un buon lavoro e poi vai in pensione) e di là. Fai un buon lavoro, e poi ne fai un altro, un po’ più delicato, e poi un altro ancora, con riconoscimento e apprezzamento, fino al ministro, e chissà. E così si forma l’intervento tempestivo e la sensibilità giusta. E la difesa giusta e dovuta del figlio, che non è tutti i figli, ma uno bravo.

Questo fenomeno merita attenzione perché è quasi impossibile da descrivere. Per capirne la portata basta far caso ai nomi sconosciuti o semi-sconosciuti che improvvisamente compaiono (e vengono presentati come scelte sagge e opportune) quando si forma uno di questi governi non eletti che sono diventati tipici negli ultimi anni.   

Persone improvvisamente scelte per contare o dirigere campi specialistici in cui non era nota l’attività o anche solo la presenza. A volte tipi così entrano ed escono da questi governi urgenti e improvvisati, mentre si sa poco o nulla di loro, dal principio alla fine. Danno l’impressione che esista, da qualche parte, una riserva della Repubblica da cui attingere, persone adatte e disponibili a servire, quando necessario, lo Stato. Come nella massoneria (l’uso della parola, in questo contesto, è per pura esigenza di analogia) esistono vari gradi di cooptandi.    Uno, più ristretto, riguarda coloro che discendono da qualche cosa e sono affidabili in quanto è affidabile è la famiglia o i maestri da cui provengono (università o studi legali o aziende). Altri per avere toccato le persone o il gruppo che fanno da trampolino. Molti di più per avere detto o taciuto la cosa giusta, con una sorta di bravura o di istinto che deve avvenire molto presto e che, prima o poi, produce cooptazione. La “cosa giusta” (da dire o da fare) è uno dei fenomeni più interessanti e meno notati della nostra vita pubblica. A volte avviene prestissimo (penso alla professione giornalistica, per esempio l’istinto e l’immediata iniziativa di non dare una certa notizia o di non fare inutilmente un nome), creando subito l’impressione che del tale o della tale “ci possiamo fidare”.   

Attenzione, non sto parlando di società segrete, tutto avviene (deve avvenire) alla luce del sole. Ma, per esempio, se sei uno che non si indigna (indignarsi è un lusso che una persona che dia “affidamento” non può permettersi) le tue carte sono buone. Se riesci a non notare per anni quanti donne e bambini e disperati, in fuga da guerre e persecuzioni, vengono lasciati morire in mare per ottemperare alle leggi del partito dominante (che include, come sostegno indispensabile, la Lega Nord) e non dirai una parola (vedi il titolo di copertina de L’Espresso in edicola: “Lasciati morire”) sei già classe dirigente.   

Se trovi logica e utile la “danza” dell’Imu, o almeno non ne parli come di un tributo versato direttamente a Berlusconi, stai dando segni interessanti di equilibrio e maturità. Negli ultimi vent’anni una buona credenziale, in Italia, è diventata non dare segni di antiberlusconismo viscerale, che è qualunque cenno di critica. Può dare buon frutto l’offerta volontaria di collaborazione. Richiede “gioco di squadra” e saper “fare sistema”. Vuol dire stare in riga. La classe dirigente infatti non è il tetto, nel Paese Italia. Esegue, traendone conforto. Esegue che cosa, per chi? Ecco una domanda sbagliata, tipica di chi non dà affidamento.

il Fatto Quotidiano, 10 Novembre 2013

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