Nuovi guai in vista per le banche italiane che grazie ai cugini francesi si ritrovano fortemente esposte verso una società che vale ufficialmente zero, Alitalia. Proprio mentre a Roma le Poste vanno verso la modifica di statuto necessaria ad entrare nel trasporto passeggeri con la ricapitalizzazione della compagnia, a Parigi Air France-Klm azzera il valore della sua quota nella società italiana, alla quale Intesa e Unicredit, sono pronte a garantire l’aumento di capitale e linee di credito supplementari per altri 200 milioni di euro. Non solo: il vettore franco olandese, secondo quarto riportato dal quotidiano economico La Tribune, non è intenzionato a partecipare alla ricapitalizzazione. Il dossier, insomma, diventa sempre più doloroso per i due istituti di credito, che, fra l’altro, sono esposti per almeno 280 milioni e non vogliono certo assistere al fallimento dell’avventura dei “patrioti”con tanto di perdita acclarata nei propri bilanci.

Purtroppo però la questione Alitalia e il peso dei suoi debiti sulle banche nazionali non rappresentano un caso isolato nello scenario nazionale. Basti pensare che se, con un esercizio contabile, ai debiti della società presieduta da Roberto Colaninno si aggiungono anche quelli di Telco, la scatola che controlla Telecom, e parte di quelli della nascitura compagnia assicurativa delle Coop UnipolSai si arriva già alla considerevole cifra 3,7 miliardi di esposizione per il sistema creditizio del Paese. La somma, pari a quanto i Comuni italiani incasseranno complessivamente per il prossimo anno dalla Tasi, la nuova tassa per i servizi indivisibili ai cittadini che sostituisce l’Imu, è naturalmente soltanto un piccolo indizio del delicato momento che stanno vivendo le banche italiane. Anche perchè comprende solo gli 1,2 miliardi di Alitalia finanziati principalmente dalle banche italiane (Unicredit, Mps, Popolare di Sondrio e Intesa), gli 1,5 miliardi di esposizione di Mediobanca verso Unipol e FonSai e 1 miliardo concessi da un pool di banche con capofila Unicredit a Telco, la holding di controllo di Telecom.

Tuttavia si tratta pur sempre di una cifra importante. Soprattutto perché queste tre storie rappresentano dei dossier delicati: se per Alitalia, infatti, non si trova la quadra fra i soci sul piano industriale con i debiti bancari fortemente a rischio, per Telecom non si riesce ad abbattere il debito con la gestione operativa rendendo necessarie dismissioni importanti o una ricapitalizzazione, mentre per Unipol-FonSai il management, con il sostegno delle banche socie, sponsorizza una maxifusione che renderà più solido il bilancio e assicurerà il pagamento dei debiti nonostante un quadro giudiziario e contabile ancora da esplorare come testimoniano i documenti recentemente pubblicati dal fattoquotidiano.it.

Ma come mai le banche italiane, dopo aver prestato denaro a volontà a queste tre società, non solo minacciano di chiudere i rubinetti, ma addirittura cedono, senza preavviso, le quote azionarie come nel caso della holding di controllo di Telecom Italia venduta agli spagnoli di Telefonica? E’ forse perché non credono nei piani industriali delle imprese finanziate o dei quelle partecipate? In realtà le pressioni creditizie sui gruppi industriali sono solo in parte correlate al business aziendale. Sulle scelte ha un peso notevole anche la necessità degli istituti di credito, nessuno escluso, di ridurre l’ammontare complessivo dei finanziamenti concessi. Detta in termini bancari, gli impieghi sono di gran lunga superiori alla raccolta. Di conseguenza l’ordine di scuderia è di ridurre la taglia dei bilanci. In che modo? Tagliando i finanziamenti a imprese e clientela, vendendo gli asset non strategicamente funzionali alla attività bancaria (come nei casi della cessione di quote di Telco e Rcs), mettendo in sicurezza i grossi debiti esistenti spingendo per maxifusioni che creino nuove realtà aziendali con un business più solido e quindi capace di ripagare il debito contratto, sostenendo per le imprese la creazione di fonti di finanziamento alternativo al canale creditizio tradizionale come con i Minibond promossi dal governo di Mario Monti.

Il problema più grosso è che tutta questa complessa operazione di ristrutturazione dei bilanci bancari è destinata ad avvenire in tempi brevi perché bisogna far quadrare i conti per la fine dell’anno come richiesto dalle nuove regole di Basilea III e dalla stessa Bankitalia, che ha domandato alle banche di iscrivere nei propri conti gli immobili al valore di mercato creando serie tensioni di bilancio sulla revisione delle cifre utilizzate fino ad oggi. Non a caso proprio ora il ministero del Tesoro ha pensato bene di dare il via alla revisione al rialzo del valore del capitale di Bankitalia detenuto dagli istituti di credito nazionali, con vantaggio soprattutto di Intesa e Unicredit. E questo mentre il governo di Enrico Letta aveva già dimostrato una particolare attenzione allo studio di nuove forme di sostegno al sistema creditizio.

In questo scenario, per far fronte alla rapidità di azione delle banche su dossier caldi come Alitalia e Telecom, l’esecutivo non ha trovato niente di meglio che far scendere in capo la Cassa Depositi e Prestiti, che gestisce i risparmi degli italiani, e le Poste, che effettuano la raccolta capillare sul territorio. Una mossa tampone per evitare il peggio senza aprire però il capitolo nei nuovi finanziamenti necessari alle aziende a proiettare il Paese nell’era della banda larga e a sviluppare un sistema di trasporto, compagnia e scali, che farebbe tanto bene al turismo in Italia. Il risultato di questa operazione è che le banche potranno ridurre il proprio debito e i risparmi degli italiani saranno utilizzati solo per rimettere in ordine le cose. Almeno per ora. E forse in futuro anche per gli investimenti. Sempre che Bruxelles, come nel caso Alitalia, non abbia niente da ridire.

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