È appena uscita la motivazione della nuova sentenza della Corte di Appello di Milano sulla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici irrogata nei confronti di Silvio Berlusconi che già si moltiplicano gli interventi (e le interpretazioni!) sul contenuto.

Delle prime reazioni mi ha colpito in particolare una affermazione: che la sentenza della Corte di Appello avrebbe sancito il carattere di sanzione amministrativa (come tale non retroattiva) della interdizione ex legge Severino-Patroni Griffi.

Credo allora che sia importante chiarire (citerò per chiarezza le parole testuali delle sentenze) che la predetta decisione non si è affatto occupata del merito della incandidabilità prevista dal testo c.d. Severino-Patroni Griffi, avendo anzi esplicitamente affermato che la questione non ha alcun rilievo nel giudizio (testualmente: “La pendenza del ricorso proposto da Berlusconi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, riguardante l’ipotizzata retroattività della Legge Severino, non incide in alcun modo sull’applicabilità, nel caso di specie, della disciplina prevista dall’art. 12 L. 74/2000. In questa sede non si verte sull’applicazione o meno della disciplina della cd. legge Severino che, peraltro, per quanto sarà evidenziato nel prosieguo della presente motivazione, ha un ambito di applicazione distinto, ben diverso e certamente non sovrapponibile con quello – oggetto del presente giudizio di rinvio- afferente l’applicazione della pena accessoria di cui all’art. 12 del D. L.vo n° 74/2000”).

Ma la sentenza in questione , in realtà, ha anche chiarito che “E’ allora evidente che il legislatore, con la cd. legge Severino, non ha inteso sostituire – come sostenuto, invece, dalla Difesa di Berlusconi – la disciplina di durata delle pene accessorie previste dal codice penale e dalla L. 74/2000, ma ha tenuto ben distinte le differenti discipline: da un lato, le pene accessorie penali che devono essere irrogate dall’Autorità Giudiziaria e, dall’altro, la sanzione di incandidabilità, discendente dalle sentenza di condanna, riservata all’Autorità Amministrativa. Non è neppure revocabile in dubbio che l’Autorità competente ad irrogare tale ultima sanzione (ben diversa da quella penale) sia l’Autorità Amministrativa e non l’Autorità Giudiziaria, come si evince dalla stessa L. Severino (artt.2 e 3) che attribuisce tale competenza all’Ufficio elettorale regionale, in fase di procedimento di elezione e di nomina, ovvero direttamente alla Camera di appartenenza del destinatario della sanzione, ai sensi dell’art. 66 della Costituzione, in caso di condanna intervenuta nel corso di mandato elettivo”.

Tale affermazione della Corte di Appello, dunque, non implica affatto (neanche implicitamente) il riconoscimento della natura di sanzione amministrativa della ipotesi di incandidabiltà ex legge Severino-Patroni Griffi, ma si limita semplicemente ad individuare chi sia competente ad irrogarla.

L’unica decisione che finora si è invece occupata espressamente della natura della interdizione prevista dalla Severino-Patroni Griffi è quella del Consiglio di Stato (di cui lo stesso Patroni Griffi fa parte!), che reca il n. 695/2013 del Consiglio di Stato. Tale sanzione ha sancito chiaramente che “Non merita favorevole considerazione, in primo luogo, il motivo di ricorso con il quale il ricorrente sostiene l’assunto ermeneutico secondo cui la normativa inibitoria di cui al citato D.Lgs. n. 235/2012 sarebbe applicabile solo con riferimento alle sentenze successive alla sua entrata in vigore.  Osserva, infatti, la Sezione che l’applicazione delle cause ostative di cui allo jus superveniens alle sentenze di condanna intervenute in un torno di tempo anteriore non si pone in contrasto con il dedotto principio, ricavabile dalla Carta Costituzionale e dalle disposizioni della CEDU, dell’irretroattività delle norme penali e, più in generale, delle disposizioni sanzionatorie ed afflittive.

Non è infatti suscettibile di condivisione il presupposto, da cui muove l’appellante, della natura sanzionatoria della disposizione preclusiva in parola in quanto nel caso in esame non solo non si tratta affatto di misure di natura sanzionatoria penale, ma neppure di sanzioni amministrative o di disposizioni in senso ampio sanzionatorie. La disposizione in questione contempla casi di non candidabilità che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di configurare in relazione al fatto che l’aspirante candidato abbia subito condanne in relazione a determinate tipologie di reato caratterizzate da uno speciale disvalore (Corte Cost. sentt. n. 407/1992; n. 114/1998). Il fine primario perseguito è quello di allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia. In questo quadro la condanna penale irrevocabile è presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, quindi, configurata alla stregua di “requisito negativo” o “qualifica negativa” ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica (Corte Cost., sentenza 31 marzo 1998, n. 114, con riguardo all’analoga fattispecie delle cause di incandidabilità previste, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali, dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16).

Dalla premessa della caratterizzazione non sanzionatoria della norma che ha trovato applicazione nel caso in parola discende il corollario della non pertinenza del riferimento all’esigenza di addivenire ad un’interpretazione compatibile con le disposizioni dettate dall’art. 25 Cost., in materia di sanzioni penali, e dall’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in tema di misure lato sensu sanzionatorie

La motivazione, estesa dal Cons. Francesco Caringella, è chiarissima e francamente, non vedo come possa lasciar adito a possibili diverse interpretazioni. 

 

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