I bambini avevano scavalcato un piccolo muretto. Poi, prima che io aprissi il cancelletto per aiutarli, sono usciti tutti ripetendo la piccola acrobazia. Giusto così, avrei svilito la loro avventura se li avessi soccorsi, se avessi reso facile il percorso.

Così ho lasciato che scappassero felici. Mijail, però, no. Lui è un bambino grassottello, sempre pieno di maglioncini e merendine. Timido. Dopo aver scavalcato il muretto è rimasto dall’altro lato. Imprigionato dal proprio impeto di audacia. Inspiegabilmente non di fida più di arrampicarsi. Cerco di persuaderlo, di aiutarlo, ma non voglio ferirlo. Non posso “salvarlo” facendolo sentire diverso dagli altri.

Allora mi travesto da compagna di avventure. Scavalcheremo insieme il muretto. Mi arrampico e provo a sollevarlo: coraggio, ce la fai! Ho la sensazione che un paio di vertebre mi rotolino nel malleolo. Ma lui non si sposta di un centimetro. Così non vale, sembra che mi voglia dire con il suo ostinato silenzio.

Alla fine cedo. Apro il dannato cancelletto, ma è troppo tardi: Mijail non riesce più a trattenere le lacrime e scoppia, rosso di vergogna e di umiliazione, mentre io maledico la mia ottusità. Non dovevo, ho applicato a un bambino i criteri di un adulto. Lui non voleva essere salvato. Voleva riuscirci. Così ho sommato umiliazione a umiliazione. Sconfitta a sconfitta.

Chissà quante volte Mijail si è sentito ripetere “non correre”, “attento” ,”non sudare”, ” ti fai male”, “cadi”, fino a convincersi di essere incapace, fino a percepire il proprio corpo come un ingombro difficile da manovrare.

Ci preoccupiamo che i bambini non prendano una zuccata, che non inciampino, che non cadano mai. Guai ad arrampicarsi, saltare giù, stare in bilico. Così salviamo forse loro, ma sicuramente mettiamo noi al riparo da ansie e rimorsi. Non facciamo lo sforzo di ricordare come eravamo, come avremmo reagito noi a chi cercando di aiutarci finiva soltanto per sottolineare i nostri limiti.

Però quel sentirsi goffi, impacciati, forse a volte fa più male di una zuccata. E spesso lascia cicatrici più profonde.

Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 21 Ottobre 2013

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