C’è stato un tempo in cui non si poteva parlare di Design italiano senza citare il Made in Italy. Era quell’età dell’oro in cui le aziende italiane facevano scuola, poche fabbriche esclusive producevano nei loro distretti prodotti di qualità, firmati da autori rigorosamente italiani. Poi è successo il contrario: che – mentre le bandiere davvero rappresentative del Made in Italy erano il formaggio, le scarpe e l’olio d’oliva – l’apposizione ‘di design‘ abbia fatto più gioco alla definizione di Made in Italy che non il contrario. Non è un caso che nel 2011 Carlo Petrini abbia ricevuto un Compasso d’oro, cioè il premio più importante nel design italiano, per l’invenzione del presidio Slowfood mentre i prodotti più interessanti del design da tempo non coincidono più necessariamente con quelli del cosiddetto Made in Italy. E non è un caso che Made in Italy sia una locuzione inglese. Evidentemente non è fatta per gli italiani.

Nel frattempo quest’etichetta è andata gradualmente svalutandosi, nel senso e nel valore. Da una parte, molte di quelle aziende storiche hanno cominciato a delocalizzare la produzione fuori dall’Italia (o in Italia ma a stranieri) e a ospitare nel loro catalogo sempre più progettisti internazionali. Dall’altra la definizione stessa di Made in Italy, che fino a un certo punto designava in modo intangibile una serie di valori percepiti ma impronunciabili di cui più o meno tutti avevano un’idea, anche se nessuno avrebbe saputo elencarli (e spiegare, per esempio, perché molti produttori italiani non rientrassero idealmente in questa categoria e molti di quelli ‘esterofili’ ancora venissero riconosciuti come campioni di italianità…), è sembrata necessitare invece una dicitura specifica ministeriale che decidesse una volta per tutte chi sta dentro e chi sta fuori. Perciò vive da anni nel limbo del Parlamento Europeo in attesa di una definizione-compromesso, destinata a cambiare ancora, a scontentare comunque molti e nonostante questo probabilmente a trovare sempre la strada per essere gabbata dai più furbi, soprattutto quando va a braccetto con temi altrettanto fumosi come quello di ‘ideazione’, ‘creazione’, ‘proprietà intellettuale’ nell’ambito del design.

Una cosa è certa: che nei fatti, cioè oltre le mode, le etichette, le normative europee, il Design da parte sua sta andando avanti senza il Made in Italy e lo sta facendo piuttosto bene. Ma non perché si disinteressi della qualità della produzione, anzi, spesso la intacca e la determina. Ma perché non si riconosce più in quella definizione, qualunque essa sia. Diciamo la verità, nel design il termine stesso “Made in Italy” è invecchiato male. Insomma, è diventato un po’ nostalgico, da sfigati, ops da persone diversamente al passo coi tempi.
Alla fine, il termine “Made in Italy” ha fatto la stessa fine di quella apposizione “di design” che a un certo punto era in ogni dove mentre ora nessun pubblicitario avveduto si azzarderebbe ad affibbiarlo al suo prodotto, specialmente se davvero di design. (E temo che anche la sigla “giovani” rischi lo stesso destino pubblicitario.) Oggi, sembra molto più interessante ragionare sul “come” a proposito della produzione, rispetto al “dove” e, secondo alcuni, anche rispetto al “cosa”. Oggi, se proprio uno volesse porre l’accento sul luogo, direbbe che è “fatto in Italia”, che è un’affermazione tautologica con un solo significato, che non coincide necessariamente con Made in Italy. E ha ancora qualche valore.

E l’Italia è piena di micro esperienze e intelligenze diffuse, di oggetti e progetti affermativi, che stanno trovando nel design una risposta poetica o intelligente, utile o bella, definitiva o effimera. E benché si tratti di idee prodotte, autoprodotte, pensate, inventate, mostrate, modificate, collaudate, sperimentate nel nostro paese, a nessuno importa di chiamarle “Made in Italy” (forse anche per scaramanzia, vista la fine che sta facendo questo slogan nel mondo…). Perciò qui la cosa interessante non è tanto ribadire l’ovvietà per cui il design italiano non è più quello di una volta, ma raccogliere queste nuove preziose esperienze, farne un pretesto per riflessioni d’attualità (i prezzi, il mercato, le aziende, i giovani, gli spazi, i vecchi, etc.) e anche per giudicare quello che ancora manca o va storto. O potrebbe andare meglio.

Questo spazio virtuale è dedicato ad aggiornare il discorso sul design fatto in Italy oggi.

Anzi, dalla prossima settimana. 


Articolo Precedente

Beni confiscati alle mafie, l’Italia è un paese che odia se stesso

next
Articolo Successivo

Lampedusa: ma chi se ne frega dei naufraghi?!

next