Una premessa, innanzitutto: l’incontro tra Letta e Obama, ieri, alla Casa Bianca, è stato “un successo”, cioè è andato bene, come doveva andare, forse un po’ meglio di come poteva andare. E per Obama, vedere finalmente nello Studio Ovale qualcuno che non l’aggrediva parlando di shutdown’, ‘default’ e ‘Obamacare’ è stato, comunque, un sollievo.

Dunque, non siamo qui a cercare di sminuire l’appuntamento, né la sincerità dello scambio di reciproche carinerie. Obama dice di Letta, la sua leadership mi ha impressionato. Letta dice di Obama, la sua accoglienza mi dà grande ottimismo.

Fatta la premessa, permettetemi una considerazione: comunque fosse andata, sarebbe stato un successo, almeno per la stampa italiana. A memoria di Dopoguerra, non c’è – credo – un incontro ravvicinato tra un presidente americano e un presidente del Consiglio italiano che, nelle cronache nostrane, non sia stato un successo. E’, forse, è sempre stato vero, almeno nel senso che, al di là della ‘chimica’ personale, gli elementi di consenso hanno sempre prevalso su quelli, spesso timidi, di dissenso.

Con l’eccezione degli incontri sempre caratterizzati da una patina di percepibile imbarazzo tra il presidente Obama e Silvio Berlusconi. Tanto che, a un certo punto, Obama, facendo una capriola istituzionale, si inventò come interlocutore italiano ed europeo il presidente Napolitano, invitato a prendere un te alla Casa Bianca, pur di tenersi a distanza dall’imprevedibile Mr B, che aveva messo su il teatrino del G8 del Terremoto nel 2009 e ficcato il naso nella scollatura di Michelle al G20 di Pittsburgh pochi mesi dopo e che poi gli si era inginocchiato accanto al G8 di Deauville nel 2011, mormorando giaculatorie contro i giudici.

Questione di aplomb, prima ancora che di politica. Ma se andiamo a prendere le cronache dei contatti con Napolitano e, ancor più, con Mario Monti, toni e apprezzamenti sono molto simili a quelli dell’incontro di ieri con Letta. Che, però, rispetto al predecessore, più professore e, magari, un po’ più personalmente autorevole, ha goduto di due vantaggi.

Uno è quello generazionale, perché Barack ed Enrico sono politicamente coetanei. L’altro è, invece, occasionale: un premier italiano non aveva mai incontrato un presidente Usa trovandosi quasi in posizione di superiorità economica, visto che l’Italia, abituata a tenersi un passo lontano dall’abisso, non è mai stata così vicina al ‘default’ come gli Stati Uniti nella notte tra mercoledì e giovedì.

Eppure la soluzione trovata per porre un termine allo ‘shutdown’ ed evitare il ‘default’ è così di corto respiro da rivalutare i governi balneari della prima Repubblica, quelli di solito affidati a Giovanni Leone: l’Amministrazione federale riapre fino al 15 gennaio ed il tetto del debito è stato innalzato fino al 7 febbraio.

E potete stare certi che, se noi, di qui ad allora, non saremo usciti dalle peste dei ‘tira e molla’ sulla Legge di Stabilità, loro rischiano di ritrovarsi, fra tre mesi, esattamente là dov’erano 48 ore or sono. Obama dice che non ci sono stati vincitori in questa vicenda. Ma, di sicuro, hanno perso gli americani – 24 miliardi di dollari, lo 0,6% del Pil ed un punto di crescita annuo, si calcola – e l’America, uscitane meno credibile sulla scena mondiale finanziaria, economica, politica.

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