Non solo Vajont. In Italia per colpa dell’incuria, della negligenza o dello sfruttamento violento del territorio vi sono state migliaia di vittime, quasi lo stesso numero di morti americani in Iraq. Mentre i disastri ambientali sono ormai ciclici, spesso colpiscono gli stessi luoghi, le stesse valli, gli stessi paesi. La lista delle catastrofi è lunga, ma ci fermiamo alle più recenti.

Se quella sera del ’63 l’acqua e il fango della diga del Vajont inghiottì 1900 persone, i bacini di Stava in Trentino spazzarono via 268 vite. Anche lì fu colpa della mano dell’uomo: i bacini di decantazione della miniera di Prestavel avevano argini fangosi e si ruppero. Una colata di fango inondò la valle a mezzogiorno di quel 19 luglio 1985. Il giudice istruttore del Tribunale di Trento sentenziò che “se a suo tempo fosse stata spesa una somma di denaro e una fatica pari anche soltanto ad un decimo di quanto si è profuso negli accertamenti peritali successivi al fatto, probabilmente il crollo di quasi 170 mila metri cubi di fanghi semifluidi non si sarebbe mai avverato”. E si sarebbero piantate 268 croci.

Le immagini dellalluvione della Valtellina a metà luglio 1987 fecero il giro del mondo: strade e ferrovie interrotte, frane che travolsero fianchi interi di montagna, condomini e alberghi spazzati via dal limo. Poi la frana maledetta della Val Pola: 40 milioni di metri cubi piombarono a valle come un missile a 400 chilometri orari. Ci furono 53 morti, ma non furono solo le piogge le vere colpevoli del disastro. L’emergenza fu affrontata dal nuovo ministro della protezione civile Remo Gasperi, che di alluvioni non se n’era mai occupato e aveva preso il posto del collaudato Giuseppe Zamberletti, con una lunga esperienza nel settore. Ma il manuale Cencelli aveva dimissionato Zamberletti per far posto a uno dei capi corrente dei dorotei, famoso soprattutto per essere stato 16 volte ministro. Alla fine si contarono i costi, che ammontarono a 4.000 miliardi di lire.

Erano passati pochi giorni da Ognissanti quando, il 5 e 6 novembre ‘94, in Piemonte il torrente Belbo, affluente del fiume Tanaro, confluente del Po, formò un’onda di piena, ripetuta in serie per tutta la valle con una furia che devastò interi abitati, così tumultuosa che cambiò il paesaggio. I più colpiti fu Steva nel Cuneese e il vicino Cherasco. Ma anche Alba, Asti e Alessandria furono inondate, anche il Po uscì dagli argini. Alla fine si contarono i morti: 70 morti, mentre gli sfollati furono più di 2000. Anche lì l’attenzione si appuntò sulla cattiva gestione del territorio e partirono gli avvisi di garanzia da parte di più procure. Celebre la frase di bMaroni per calmare le proteste degli alluvionati: “Per quel giorno (Natale) non ci saranno più senzatetto. Saranno tutti tornati nelle loro case“. Mai promessa fu più infausta: il tempo trascorse lungo i mesi più freddi e la primavera e qualcuno aspettò anche l’estate inoltrata.

Nel compresorio di Sarno, nel Salernitano, nel mese di maggio del 1998 morirono 160 persone. Due milioni di metri cubi di melma si staccarono dal monte sopra gli abitati, invase le strade, penetrò nelle case. Sommerse chiunque si trovasse sulla sua strada. L’ospedale di Sarno fu investito da una frana, ma altri movimenti franosi si scaricarono sul paese di Quindici nell’Avellinese. Anche lì ci fu incuria e abbandono del territorio con conseguente dissesto idrogeologico

Giampilieri, Scaletta, Zanclea, Altolia nel Messinese: 37 le vittime, 1° ottobre 2009, tra loro Simone Neri, sottocapo della Marina che, seppure lui stesso alluvionato, portò in salvo otto persone e si sacrificò. Avrebbe compiuto 30 anni pochi giorni dopo. Un bollettino di guerra dopo un violento nubifragio e colate di fango e detriti sulle case. La zona era ad elevato rischio idrogeologico e solo due anni prima si era verificato un evento simile, ma senza morti. Questa volta colpì duro, al cuore dei messinesi, ma negli anni si era permesso di costruire dove il rischio era elevato e l’allora capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, aveva indicato nell’abusivismo edilizio una delle cause del disastro. Ma chi doveva controllare dov’era?

Legambiente lo aveva denunciato più volte: Vicenza è a rischio, il Bacchiglione può sommergere la città. Nessuno li ascoltò e torrenti e fiumi esondarono tra il 31 ottobre e il 2 novembre 2010. Morirono alcune persone, 130 comuni e 500 mila persone furono coinvolte, l’acqua distrusse intere zone produttive. Con 192 milioni di euro investiti nella prevenzione si sarebbero risparmiati più di 300 milioni di euro per il soccorso agli alluvionati. 

Sei morti e Genova affogata nell’acqua, era il 4 novembre di due anni fa. Quarant’anni prima, nell’ottobre del 1970 le vittime furono 44 e le zone colpite furono le stesse. Mai lezione fu più inutile. Si gridò al fato, ma tutti sapevano che Genova era a rischio e nessuno fece i lavori per mettere in sicurezza la città e il territorio. L’Italia è una frana su frana. Il diluvio puo’ scatenarsi ovunque, in qualunque momento: da Imperia ad Agrigento. Il territorio è talmente compromesso, le competenze di chi dovrebbe porre rimedio talmente confuse, i fondi così scarsi e gli sprechi così vasti da non offrire speranze: gli italiani saranno obbligati a convivere con l’onda di fango. Per ricostruire l’equilibrio tra terra, acqua e cemento servirebbero 40 miliardi di euro: fondi che oggi sono un’utopia.

Dal 1960 il bilancio sembra quello di una guerra: più di quattro mila morti. Alcuni anni fa Protezione civile e Legambiente hanno fatto il censimento di quante persone vivono sull’orlo della frana: 3 milioni e mezzo, solo considerando le aree di massima allerta. Il Vajont, purtroppo, non servì da lezione: il territorio deve essere rispettato, tutelato, trattato bene e non violentato. 

 

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