Il tasso di disoccupazione giovanile al 40 per cento non è solo il risultato di una statistica fuorviante. È un dramma del nostro paese. E invece di proporre nuove misurazioni, sarebbe molto più importante capire perché in cinque anni i giovani senza lavoro sono passati dal 18 al 40 per cento. 

di Pietro Garibaldi* (lavoce.info)

L’insofferenza per le statistiche

In tempi di crisi, in Italia va di moda criticare le statistiche. Durante la grande recessione del 2009, quando il Pil crollò del 4 per cento, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti si fece portavoce dell’idea che il prodotto interno lordo era una statistica inadatta per misurare il benessere del paese. Negli stessi anni, Silvio Berlusconi negava la crisi perché- sosteneva- “I ristoranti erano pieni”.
È certamente possibile che il prodotto interno lordo non sia la migliore misura del benessere di un paese, ma ho sempre trovato paradossale che di questi problemi se ne parlasse in Italia durante una profonda recessione, dopo aver registrato una delle peggior performance di crescita nel mondo negli ultimi dieci anni. Perché, mi sono sempre chiesto, non si parlava di cambiare il calcolo del Pil durante il miracolo economico degli anni Sessanta? Sarebbe più credibile e meno ipocrita se l’iniziativa di cambiare il calcolo del Pil arrivasse dalla Cina, un paese che cresce costantemente intorno 10 per cento da quasi un ventennio.
In questi mesi, sotto accusa è finito il tasso di disoccupazione giovanile. A giugno in un convegno il ministro del Lavoro Enrico Giovannini aveva sostenuto che il tasso di disoccupazione- che in Italia aveva ormai superato il 35 per cento della forza lavoro- era una statistica fuorviante. Nell’ultimo bollettino Istat il tasso di disoccupazione giovanile, calcolato per i giovani tra 15 e 24 anni, è addirittura arrivato al 40 per cento. Sulla prima pagina del Corriere della Sera, un autorevole giornalista come Dario di Vico rilancia l’idea che il tasso di disoccupazione al 40 per cento è davvero una statistica sbagliata, e ritiene invece che si dovrebbe tagliare la testa al toro e comunicare “correttamente il dato del’11,1 per cento di disoccupati e non quel 40 per cento o giù di li che ci fa accapponare la pelle ogni volta”.

Un calcolo internazionale

Il tasso di disoccupazione è calcolato dall’Istat da più di un ventennio secondo la definizione internazionale elaborato dall’International Labour Office. Un lavoratore viene considerato disoccupato se nel momento dell’inchiesta si trova simultaneamente in tre condizioni: i) nella settimana precedente l’inchiesta non ha lavorato nemmeno un’ora, ii) ha esplicitamente cercato un lavoro ed iii) è immediatamente disponibile a lavorare. In Italia i giovani in queste condizioni sono circa seicentosettantamila. I giovani occupati sono invece un po’ più di un milione. Questi numeri sono incontrovertibili. La forza lavoro è definita in tutto il mondo dalla somma dei disoccupati e degli occupati, e per i giovani è pari a circa 1,6 milioni. Il tasso di disoccupazione è quindi definito come il rapporto tra il numero dei disoccupati e il totale della forza lavoro. In Italia questo numero è pari al 40 per cento, poiché seicentosettantamila diviso 1,6 milioni risulta pari a circa 0,4.
È certamente sbagliato- come giustamente rileva di Vico- sostenere che 40 giovani su 100 tra i 15 e i 24 anni sono disoccupati. Per orientarci in questi numeri occorre ricordare che la maggior parte dei 6 milioni di giovani italiani è statisticamente definito fuori dalla forza lavoro, o perché studente a tempo pieno o- più tristemente- perché non studia, non lavora e non cerca nemmeno un lavoro. Secondo di Vico il tasso di disoccupazione corretto sarebbe quello ottenuto dividendo il numero di disoccupati per il numero di giovani nella popolazione, arrivando quindi all’11 per cento circa da lui indicato.
Si potrebbe facilmente sostenere che anche il numero proposto da di Vico non va bene, perché non tiene conto dei giovani che hanno smesso di cercare un lavoro perché scoraggiati o dei giovani non occupati che cercano lavoro ma non sono disposti a lavorare perché studenti, o ai giovani occupati part-time in modo involontario. Se vogliamo, possiamo proporre decine di statistiche sulla disoccupazione. Ma diventa davvero una discussione semi-accademica. O addirittura semi-seria.
Alla fine, invece di proporre nuove misurazioni, sarebbe molto più importante capire perché il tasso di disoccupazione giovanile – che in Italia cinque anni fa era pari al 18 per cento – sia ora salito al 40 per cento, e perché probabilmente non tornerà al livello del 2007 nei prossimi dieci anni. Oppure chiederci perché la stessa statistica è pari al 10 per cento in Germania e in Austria? Perché la disoccupazione giovanile non è un problema statistico, ma è davvero uno drammi del paese.

*Professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Torino, è direttore del Collegio Carlo Alberto e responsabile degli studi sul lavoro della Fondazione Debenedetti. E’ consigliere di sorveglianza e membro del comitato di controllo di Intesa SanPaolo. E’ stato Consigliere economico del Ministro dell’Economia e della Finanze nel 2004 e 2005, e consulente in materia di lavoro per il Dipartimento del Tesoro. Ha conseguito il Ph.D. in Economia presso la London School of Economics nel 1996. Dal 1996 al 1999 ha lavorato come economista nel dipartimento di ricerca del Fondo Monetario Internazionale, ed è stato professore associato presso l’Università Bocconi dal 2000 al 2004.

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