Sono fatti per essere letti, i libri. E quando dico letti, non intendo soltanto l’atto silenzioso che tutti ben conosciamo, quell’isolarci dal mondo che ci consente di concentrarci sullo scritto, di donare a quei segni un significato e un senso. No, io intendo anche quell’altra lettura, quella ad alta voce, che invece ci tiene assieme agli altri, che abita il suono e fa comunità.

Ogni lettura, è certo, sia silenziosa, che invece abitata dalla voce, è un atto di dignità e libertà, ma accade che leggere silenziosamente sia a volte più difficile che ascoltare: non siamo nati per leggere, la lettura (e a maggior ragione quella silenziosa) è una conquista che ha richiesto millenni, anche se oggidì noi chiediamo ai nostri figli di 5 o 6 anni di risolvere la faccenda in assai meno tempo.

Accade anche che leggere silenziosamente diventi ogni giorno più difficile, per l’età, per il contesto, per migliaia di diverse ragioni, e allora può soccorrerci l’udito, la voce dell’altro, che ci getta il capo di una cima a cui aggrapparci per continuare il nostro viaggio nella cultura e nella riflessione. Credo sia stata una considerazione di questo genere quella che avviato, nel 2001, una bellissima iniziativa di Coop Adriatica, che si chiama Ad alta voce, per l’appunto.

È qualcosa di più di una serie di letture pubbliche di poeti, scrittori, attori, intellettuali, questa manifestazione, è soprattutto la sua rete di volontari che nel corso di mesi si recano dappertutto, a leggere ad alta voce quei libri a chi non può più, o non sa, farlo da solo. Non a caso a scrivere una sorta di ‘manifesto’ per Ad alta voce fu Roberto Roversi, poeta quanto mai impegnato sul fronte etico e politico.

Scriveva allora il poeta bolognese: «Alle persone che non possono uscire per causa dell’età o di un male, i libri, anche i libri, adesso arrivano a casa, non per un impegno esornativo o economico ma per la convinzione che promuovere la cultura in tutte le sue ampie ricchezze di base, e quindi la indispensabile lettura, sia oggi dovere morale di tutti, ciascuno a suo modo, ma soprattutto delle strutture pubbliche e commerciali rilevanti, e sia inoltre un dovere sociale».

Da quell’ormai lontano 2001, a Bologna, ma anche a Cesena, a Venezia, ad Ancona, a Ravenna e all’Aquila, dopo il terribile terremoto, decine di volontari vanno dappertutto, nelle case private, nelle scuole, nelle carceri, negli ospedali e dagli anziani e leggono, leggono, leggono: lo fanno ad alta voce e, ogni volta che un volontario legge, un po’ di solitudine è cacciata via. Accanto a loro una maratona di letture degli autori, dei poeti, degli scrittori, lì a testimoniare, con un atto prima di tutto politico, che l’arte e la cultura sono beni comuni, proprietà collettive, la cui circolazione è garanzia di libertà e democrazia, di tolleranza e di futuro.

Perché stupirsi, allora, se un altro degli storici sostenitori di Ad alta voce sia stato Edoardo Sanguineti, altro poeta fortemente impegnato a livello civile. Ma la lista dei nomi illustri della cultura e dell’arte che hanno aderito negli anni a questa manifestazione sarebbe troppo lunga per questo breve post.

Quest’anno Ad alta voce è giunta alla sua tredicesima edizione e, dopo varie tappe, giungerà alla sua serata conclusiva a Bologna il 5 ottobre, alle 18, al Teatro Duse. Come al solito densissimo il programma che comprende reading (tra gli altri, Lella Costa, Ermanno Cavazzoni, Gianni Celati, Paolo Nori), concerti, mostre. Non mancate non solo per l’arte, per la poesia, per la cultura, per la riflessione, ma proprio per la politica, oggi rivestita d’abiti vergognosi, ma che, per un giorno, ridiventa sinonimo di tutto ciò, riacquistando la sua dignità. È l’unico tipo di larga intesa che mi riesca sopportabile, al momento. 

 

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