Caro Michele, giovedì 26 settembre ricomincia Servizio Pubblico. Dimmi, in che anno siamo dell’era Santoro?
Ormai abbiamo raggiunto il quarto di secolo. Il primo Samarcanda risale all’87. Una trasmissione che ha accompagnato i grandi cambiamenti dalla Prima Repubblica ad oggi.

Ne sei stato il testimone diretto.
Testimone e coprotagonista perché non mi nascondo l’importanza che la tv ha conquistato e che conserva ancora oggi. La trasformazione subita dalla politica è stata determinata dall’evoluzione della televisione, quella generalista in particolare.

Più facile o più difficile per te condurre oggi un programma così seguito?
Più difficile: noi eravamo i pionieri di questo genere, potevamo amministrare le forze con meno assillo di concorrenza. Ora si assiste al moltiplicarsi dei contenitori informativi, non uso il termine talk perché molti programmi come il nostro fanno fatica ad essere inquadrati nella categoria talk. Non costruiamo solo parole ma anche immagini.

Fin dall’inizio hai imposto uno stile che i contenitori attuali non fanno che ripetere. L’ospite che diventa protagonista, il palco che dà voce alla protesta civile, gli scoop giornalistici.
Nel nostro caso, anche la scenografia costituisce un elemento fondamentale della narrazione che vogliamo svolgere nel corso della puntata; come lo è per un giornale, la grafica delle pagine. L’idea delle torri in studio, nata dopo l’evento sul web “Tuttinpiedi”, rappresenta la distanza tra la politica e l’indignazione che monta tra i cittadini. Vorrei aggiungere un elemento. Ci si concentra sulla crisi degli ascolti ma si parla poco del perché le reti non riescono più ad esercitare la funzione che avevano storicamente: ad esempio, Ballarò fa ottimi risultati se si considera che va in onda su Raitre, dove, in questo momento, gli ascolti faticano.

Perché le reti non svolgono più la loro funzione?
Oggi assistiamo alla malattia dell’industria televisiva che è stata sempre specchio del Paese, uno specchio che guarda avanti. Nelle tendenze della tv, si prefigurano i futuri spostamenti nell’opinione pubblica e nelle istituzioni. La causa di questa malattia è il conflitto di interessi: per un lunghissimo periodo la tv è stata sotto il controllo di una sola cultura, senza creare una vera concorrenza. E ciò è avvenuto anche quando governava la sinistra. Alla fine della Prima Repubblica, c’è stata un’omologazione profonda del sistema, senza più distinzioni tra servizio pubblico e privato, e un controllo verticale delle quote a cui la sinistra non si è opposta, accontentandosi di gestire spazi subalterni. Da allora c’è stato un lento deteriorarsi della struttura dei network tipica della vecchia tv: i direttori di rete e i capistruttura che autonomia hanno oggi? Si dà per scontato che la tv sia eterodiretta e non solo dalla politica. Colpisce per esempio che il banchiere Gotti Tedeschi chieda l’intervento del Vaticano sulle nomine Rai senza suscitare il minimo clamore.

Ombrelli protettivi che possono risultare comodi, a chi sta in questo recinto.
La crisi dei talk va in parallelo con quella del varietà. Oggi si basa tutto sulla logica dei format: l’equilibrio perverso che si è creato prevede che gli autori siano esterni al network e che le loro proposte siano attente soprattutto agli interessi del padrino di riferimento.

Nel sistema che tu descrivi agiscono però anche gli uomini. Voglio dire che un conduttore non vale l’altro e che il successo di un programma deriva anche dall’esperienza, dall’energia e dal carisma di chi lo dirige.
Storicamente i conduttori dei programmi di informazione sono personalità molto forti, espressione di un punto di vista preciso: penso a Giuliano Ferrara, a Gad Lerner, a Maurizio Costanzo e allo stesso Bruno Vespa. Di figure così ne abbiamo sempre di meno.

Spesso i conduttori non hanno le spalle abbastanza forti per opporsi ai padrini politici.
Con tutti i suoi difetti, lo star system è stato un elemento di ostacolo al controllo verticale del potere perché nessuno di questi protagonisti (uno per tutti Enrico Mentana) si è arreso al ruolo di mero esecutore.

Non hai l’impressione che agli spettatori piaccia sempre di meno il dibattito tra i soliti nomi e che maggior gradimento abbiano i reportage e le inchieste?
Si investe poco in queste produzioni perché, oltre ai costi piuttosto elevati, hanno un risultato incerto: l’inchiesta “funziona” solo quando è deflagrante e finisce sui giornali. Abbiamo chiuso la scorsa stagione di Servizio Pubblico producendo sei speciali di montaggio su temi caldissimi come la trattativa Stato-mafia e il peso della camorra sull’economia meridionale. Hanno avuto ottimi ascolti ma nessun editore è venuto a chiederci di investire su un prodotto del genere. La tv riflette l’atteggiamento della classe dirigente a cui manca la visione per ideare programmi nuovi. E in questo i talk sono elementi più dinamici rispetto ai telegiornali: le verità vengono sempre fuori dai programmi di approfondimento. Se il talk è in crisi o addirittura morto, i tg sono forse vivi?

Servizio Pubblico fa paura a tanti leader politici. È vero che molti non vengono per paura di Marco Travaglio?
Per loro l’ingresso in quell’arena significa dare legittimità a chi li accusa e li critica. Lo stesso Berlusconi venendo in trasmissione ha segnato la sconfitta dell’editto bulgaro, questo era la grande novità che nessuno ha valorizzato.

Chi vi ha criticato non voleva celebrare il successo di B. quanto piuttosto attaccarvi: dimostrare che eravate come tutti gli altri.
In Italia vige la leggerezza della critica televisiva, vale a dire non riuscire a leggere la televisione dentro i processi sociali e istituzionali del Paese. Con il vecchio sistema elettorale maggioritario un politico non poteva permettersi di non andare in tv. Doveva per forza assumersi le sue responsabilità davanti all’elettorato. L’attuale classe dirigente, figlia del Porcellum e formata da nominati, è espressione chi di un padrone, chi di un partito. Personaggi che non devono rendere conto delle proprie azioni se non a chi li ha messi lì.

Oggi la tv somiglia a un “talent”: prima era un mezzo per far arrivare alla gente la voce dei partiti di massa o dei grandi leader. Ora, invece, a parte che di grandi leader non se ne vedono in giro, è la tv a fabbricarli.
L’immagine di Berlinguer colpito da ictus su quel palco di Padova rappresenta in maniera drammatica che cosa ha significato la sacralità del leader: lui stava morendo e parlava con sempre più fatica ma nessuno dei suoi osava avvicinarsi per non intaccarne il carisma. Oggi il leader non è più un intoccabile, una figura divina. E ciò vale anche per i più potenti. Prendiamo Silvio Berlusconi: la leggenda vuole che la sua forza discenda da un’eccellente capacità di comunicare. Non è così. Penso invece che lui abbia individuato un blocco sociale di interesse al quale far riferimento, dopodiché si è affidato ad un esercito di pasdaran e al blocco delle sue televisioni: senza le tv non avrebbe potuto incidere così tanto sul sistema.

Renzi e Grillo quanto possono essere considerati dei leader mediatici?
Renzi cerca il sostegno della gente puntando sulle capacità di comunicatore, vere o gonfiate che siano. Si torna quindi alla logica del talent: il sindaco di Firenze è come il vincitore di X-Factor e non importa che si confronti o meno con gli elettori. L’esperienza di Beppe Grillo, invece, assomiglia al modello Berlusconi: ha costruito una macchina capace di intercettare l’umore del web e di incanalarlo in una forza politica. Gode di una posizione dominante anche perché l’estrema frammentazione della rete favorisce il più forte.

Torniamo a Servizio Pubblico, riuscirà a mantenere i livelli di ascolto e il forte impatto sull’opinione pubblica?
Veniamo da due stagioni pazzesche prima con l’esperimento sulla piattaforma delle tv locali, poi con l’arrivo su La7 dove in termini di ascolto siamo stati spesso la seconda o la terza rete e, in un paio di volte, la prima. Cosa faremo? Ci saranno delle novità, nuove sperimentazioni. Proveremo a rompere tutti i ritmi del talk. Sono convinto che il mondo che raccontiamo sia destinato ad essere sconvolto da cambiamenti precisi. E a ciò dobbiamo essere preparati. E’ come fare surf sull’oceano cercando l’onda giusta.

Caro Michele, Servizio Pubblico è un po’ come il Fatto: chi non ci ama sostiene che il nostro successo solo dipende dall’esistenza di Berlusconi. È un luogo comune, ma noi sappiamo che non è così.
Quando facevo Samarcanda Berlusconi non era ancora Berlusconi. Un punto di vista indipendente trova sempre degli argomenti per risultare interessante.

(a cura di Paola Maola)

da Il Fatto Quotidiano del 25 settembre 2013

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