Armi e attrezzature tecnologiche che dal Regno Unito volano verso Paesi considerati “causa di preoccupazione”, come sono stati definiti dal parlamento britannico nei giorni scorsi. E ora è scontro fra la House of Commons, la Camera bassa di Westminster, e il governo britannico, una battaglia che ruota tutta attorno a pistole, granate, fucili, sostanze chimiche e radar. Così, dice ora la stampa britannica, il comitato parlamentare che si occupa di export di armi avrebbe ricostruito che ben 18 Paesi – oggetto di embargo oppure considerati “problematici” sul fronte del rispetto dei diritti umani – avrebbero ricevuto, solo nei primi tre mesi del 2013, attrezzature utilizzabili a fini bellici per un valore di oltre 80 milioni di sterline, quasi 100 milioni di euro. Così ora il comitato chiede al governo perché si esporti ancora verso l’Arabia Saudita o la Libia, il Kenya o il Madagascar, il Libano o Paesi dell’Africa sub-sahariana. In particolare, per quanto riguarda il Kenya, il comitato di Westminster ha contestato l’invio in quel Paese, per 6 milioni di sterline di valore, di oggetti come “dispositivi acustici per il controllo delle sollevazioni popolari”, veicoli blindati e altro, proprio nel periodo delle elezioni presidenziali.

Ora la questione viene affrontata dalla stampa britannica, come ad esempio il quotidiano The Independent, in prima fila nella vicenda. Il governo guidato da David Cameron, chiaramente, si difende. Una portavoce dell’esecutivo ha detto proprio a The Independent: “Il Regno Unito opera uno dei più rigorosi regimi di esportazione delle armi nel resto del mondo, ed è stato in prima fila nell’implementazione di trattati di commercio internazionali ben precisi, incluso quelle recente relativo all’Egitto. Noi non autorizziamo le licenze per l’esportazione quando c’è un chiaro rischio che questi beni possano essere usati per la repressione interna”. Eppure il comitato va avanti per la sua strada e chiede spiegazioni a 4 ministri: quello degli Esteri William Hague, il ministro alle Imprese Vince Cable, il ministro della Difesa Philip Hammond e quello per lo Sviluppo internazionale Justine Greening. L’accusa? Non essere in grado di dare assicurazioni sul fatto che le esportazioni britanniche non siano usate per mettere a repentaglio il rispetto dei diritti umani. Accuse bollenti, appunto, in uno dei più accesi scontri fra parlamento e governo degli ultimi mesi. La stampa scrisse addirittura, qualche mese fa, che alcune sostanze chimiche in grado di essere utilizzate per la fabbricazione di gas nervini fossero state vendute alla Siria. Il governo si difese, dicendo che, nonostante la vendita fosse stata autorizzata, quelle sostanze non lasciarono mai il Regno Unito.

La preoccupazione principale, secondo il comitato, è che “non possiamo seguire il destino di queste attrezzature una volta che vengono vendute”, non è possibile infatti una loro tracciabilità. L’export britannico nel settore della difesa e della sicurezza è di oltre 11,5 miliardi di sterline all’anno, quasi 14 miliardi di euro. Fra le nazioni che “beneficiano” di questi accordi di vendita, secondo The Independent, Libia, Libano, Arabia Saudita, Oman, isole Comore, Madagascar, Cina, Russia e Argentina. I parlamentari del comitato, nei giorni scorsi, hanno anche “bacchettato” il governo per accordi con l’Egitto del periodo della scacciata del presidente Hosni Mubarak. Poi, chiaramente, quelle licenze furono sospese non appena la situazione si fece troppo problematica. Intanto, nel Regno Unito, associazioni come Campagin against arms trade lottano contro il commercio delle armi da parte dello Stato. “Queste licenze andrebbero sospese tutte – dice ora un portavoce dell’associazione – e comunque nella legge vale il principio che l’ignoranza non è un argomento di difesa. Anche nel caso in cui non avessero saputo, non sarebbe comunque una scusante”.

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