Non sappiamo se ad Angelino Alfano manchi il quid, la memoria o soltanto la lungimiranza. Nemmeno nove mesi fa, subodorando la campagna elettorale in salita e strapazzato dal vento contro la casta, esultava per la legge di Paola Severino: “Non abbiamo nessuna difficoltà a riconoscere il decreto perché nasce da una nostra proposta che aveva come prima firma la mia. E non vi è alcun nesso con il nostro presidente, che è colui il quale ha voluto questo disegno di legge e che ha la certezza di essere assolto perché nulla ha a che vedere con i processi che lo vedono interessato”.

Chissà se il Cavaliere è ancora d’accordo con il segretario, o se sarà mai capitato. E chissà se avrà apprezzato le previsioni giudiziarie di Angelino e, soprattutto, l’attribuzione di paternità del testo Severino. Ormai orfano, figlio di nn, un obbrobrio per i berlusconiani, un pargolo, approvato a dicembre, con evidenti difetti costituzionali.   

Eppure, Alfano c’entra. Oltre i meriti che volle trapuntarsi assieme ai vari Maurizio Paniz e Renato Schifani. Archiviate senza esito migliaia di proteste, di vaffanculo al V-Day di Beppe Grillo, di libri con appendici e di documenti imbarazzanti, il governo di Silvio Berlusconi, già quattro anni fa, si esercitò con un disegno di legge firmato a più mani. Quelle di Alfano (Giustizia), di Roberto Maroni (Interni), di Umberto Bossi (Riforme) e di Renato Brunetta (Funzione pubblica). Titolo: “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica amministrazione”.

Il ddl fu deliberato in Consiglio dei ministri il primo maggio 2010 e poi fu spedito al Senato, attese un anno e finì in cantina perché, nel frattempo, il Cavaliere aveva lasciato il campanellino al professore, ai tecnici di Mario Monti. I tecnici, per l’appunto, non avevano soggezioni politiche, o quantomeno cercavano di mascherarle bene. E le ruberie degli eletti, su larga scala, senza esclusioni di bandiere di partito, obbligavano un segnale. La toppa legislativa di Alfano e compagni delegava il governo, e in quel momento toccava a Monti, a formulare un decreto legislativo contenente “una normativa in materia di incandidabilità per deputati, senatori, parlamentari europei e anche per le elezioni regionali, provinciali e comunali”.

Risultato: ovunque non possono correre i condannati e devono decadere se sono in carica, basta una pena definitiva oltre i due anni. In tanti non erano soddisfatti, due anni sono pochi. Al Senato la legge Severino fu approvata con 256 voti favorevoli, l’intera maggioranza a sostegno dei tecnici. Sfilata a Montecitorio: 480 sì su 630. E di nuovo applausi collettivi al Senato. Non prima di aver accertato i profili costituzionali nella relativa commissione di Palazzo Madama e non aver aggiunto la parola “sopravvenga” all’articolo tre. Il “sopravvenga” consente di non avere dubbi sui tempi d’applicazione della Severino: vuole dire che un eletto, se subisce una condanna in pieno mandato, deve comunque lasciare il posto. Era un proposito condiviso da tutti, anche da quelli che vorrebbero scomodare le Corti di Lussemburgo o Strasburgo, la Corte costituzionale o finanche l’Onu pur di dimostrare che la legge non è proprio uguale per tutti. Alfano, per sua fortuna, ha dimenticato di aver lasciato le impronte digitali sul testo contestato.   

E Paola Severino? Fu lei l’autrice di un’ultima e determinante stesura. Ora non proferisce verbo in sua difesa. Il ministro Anna Maria Cancellieri dal Viminale ha fatto la sua parte e più di un comunicato stampa. Traslocata alla Giustizia, anche su indicazione del Pdl, pure la Cancellieri ha cambiato idea: “Riflettere sulla costituzionalità”. Ma come, prima non l’aveva notato? O nel nido hanno confuso i testi e ora ci ritroviamo con un figlio di nn?

 

il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2013

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