Cos’è che ci tiene bloccati? Cos’è, davvero, che ferma l’Italia, la incatena, la soffoca in una quotidiana “crisi” – prima morale, poi politica, infine anche economica e sociale – che ormai da vent’anni e più è l’alibi giusto per non cambiare mai, per non rischiare mai, per non scegliere mai? Dov’è il cuore dei nostri problemi, qual è la causa delle nostre lentezze, dei nostri ritardi storici, delle nostre tante, troppe occasioni perdute? 

Forse, a voler guardare l’Italia allo specchio, tutto questo ha un nome. La burocrazia. Che è, sì, la burocrazia degli uffici e degli sportelli, delle carte e delle scartoffie, delle autorizzazioni e dei pareri, delle lunghissime trafile e dei rimpalli infiniti. Ma è anche quella “burocrazia mentale” che di tutto questo è la vera causa. È un modo di pensare che utilizza la ricerca di una utopistica “unanimità” come scusa per non agire, per non trasformare mai il pensiero in azione. 

Un cancro che agisce a ogni livello, fuori e dentro la politica. Si vede nelle decisioni storiche e nelle piccole beghe quotidiane, nel dibattito nazionale e nelle decisioni locali. Lo sperimentiamo ogni giorno, tutti, sulla nostra pelle. 

Non è solo la massa di procedure, di regole e regolette, di certificazioni e di autorizzazioni che incombono su ognuno di noi, che si tratti di una multa non pagata o di una richiesta all’anagrafe. Al di là della quotidianità e dei suoi “lacci e lacciuoli”, come si suol dire, il grande mare del pensiero burocratico inghiotte in futuro del paese. Perché, che si tratti di un imprenditore o di un laureato, di un amministratore locale o di un creativo, per ogni progetto che nasce con l’ambizione di incidere sulla realtà e di migliorarla (e che poi ci possa riuscire per davvero è tutta un’altra questione) ci sarà sempre un parere negativo, una pratica insormontabile, un “canale” chiuso, un cavillo insidioso, una diga alzata a suon di “non si può fare”, “non è mica così semplice”, “ci vuole tempo”. 

Difficile trovare a tutto questo una definizione migliore di quella che ne diede, ai primi del Novecento, Carlo Dossi, che pure fu illustre funzionario statale: “Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile”. Ed è il modo migliore per dissipare le migliori energie di un paese, ipotecandone il futuro. Un discorso vero sempre, e a maggior ragione ora che la “crisi” è diventata mondiale e non fa prigionieri. 

Per questo all’Italia, prima ancora che nuovi partiti e nuove alchimie politiche, servirebbe un Comitato nazionale di liberazione dalla burocrazia. Non è una boutade, ma una proposta. Servirebbe una rivoluzione culturale, uno scatto collettivo, un’onda trasversale di azione e di protesta contro quella che è la nostra prima e peggiore zavorra. Non è facile, certo. Non è facile ma è davvero giunto il tempo di liberarsi dalle spire del pensiero burocratico, di quella confortante litania fatta di infiniti moduli e infiniti passaggi dietro cui troppo spesso ci si ripara per non assumersi la responsabilità di cambiare le cose, o anche di provarci soltanto. Perché la burocrazia è sempre conservatrice. E all’Italia, oggi come ieri, serve tutto tranne la conservazione. 

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