“Ricordo bene quel giorno: un giorno di incertezza e di profonda paura”. Nel 1973 Eduardo ‘Mono’ Carrasco aveva 19 anni. Faceva lavoretti in una scuola di Santiago del Cile, era appassionato di pittura e militava nella Gioventù Comunista. Così racconta il ‘suo’ 11 settembre. Quell’altro 11 settembre, quello di 40 anni fa, quando le bombe sganciate sulla Moneda mettevano fine all’esperimento socialista di Salvador Allende. Iniziava quel giorno in Cile l’era di Augusto Pinochet, i 17 anni di una delle dittature più sanguinose del Sud America. Con l’appoggio degli Stati Uniti di Nixon e Kissinger. Mono è uno delle migliaia di cileni che si sono rifugiati nel nostro paese dopo il golpe.

Oggi vive in Piemonte, è un pittore muralista. Ogni cileno ha in mente il suo 11 settembre. Tutti descrivono lo stesso stato d’animo: l’angoscia di non sapere cosa stava succedendo e cosa sarebbe successo da lì in poi. E’ quello che hanno provato anche gli Inti Illimani. All’epoca erano dei giovani musicisti impegnati a fare portare in giro per il mondo la nueva cancion chilena. Quando partì il colpo che uccise il presidente Allende si trovavano in piazza San Pietro a Roma e la radiolina di un fedele dava loro la notizia. Sarebbero dovuti rimanere in Italia un paio di settimane, ci rimasero 15 anni. “Il regime fu qualcosa di immorale, spaventoso” dice oggi Horacio Salinas, uno dei fondatori degli Inti Illimani (che questa sera saranno in concerto a Milano). “Pinochet rappresenta il sogno idiota di ogni dittatura di controllare e reprimere fisicamente, con i metodi più atroci, il dissenso”. La tournée in Italia salvò gli Inti Illimani.

Ma furono tanti, nei giorni successivi all’11 settembre, a perdere la vita. Tra loro il grande cantautore Victor Jara, ucciso a colpi di pistola. Era finito, come tanti altri, all’Estadio National di Santiago del Cile, che l’esercito aveva trasformato in un campo di concentramento. Lì operai, militanti politici o semplici sospetti erano torturati per ore, poi fucilati. I loro corpi venivano buttati nelle acque del rio Mapocho. Non furono risparmiate le donne, violentate dai militari e dai loro cani. “La repressione fu brutale e particolarmente selettiva. Tutti i quadri dirigenti del partito comunista furono fatti fuori. Così come i volti più noti del mondo intellettuale, accademico e sindacale. Ci furono decine di migliaia di morti e di desaparecidos. Le famiglie cilene ancora attendono giustizia”.

A parlare così è Eduardo Contreras Mella. Già deputato comunista, è stato l’avvocato che è riuscito a ottenere l’arresto di Augusto Pinochet. Nel 1988 la dittatura, ormai logora, terminava la sua corsa. Con un referendum popolare il Cile decideva di voltare pagina e di tornare alla democrazia. I passaggi di potere, però, furono lenti e graduali. Pinochet e i suoi uomini rimasero a lungo saldi ai posti di comando. Il dittatore è sempre riuscito a evitare il carcere, tra le mille complicità che hanno caratterizzato la sua carriera. Fu arrestato per la prima volta nel 1998 a Londra per crimini contro l’umanità, su mandato del giudice spagnolo Baltasar Garzon. La diplomazia britannica prima e quella di casa poi lo salvarono. Negli anni successivi subì numerosi processi in patria. Finì ai domiciliari e trascorse i suoi ultimi anni nella lussuosa villa di Santiago. Il 10 dicembre del 2006 morì all’età di 91 anni.

“La lotta per la verità e per la giustizia in Cile fu dura, il potere ha messo degli argini” prosegue Contreras Mella. “Però un successo lo abbiamo ottenuto: dimostrare che Pinochet era un assassino, oltre che un ladro e un corrotto. Siamo il paese latinoamericano che ha il maggior numero di processi aperti contro la propria dittatura. Dobbiamo esserne orgogliosi: non è una battaglia solo per il Cile, ma per tutto quanto il mondo”. In questi giorni a Santiago si sono susseguite numerose manifestazioni. Il momento culminante sarà mercoledì. Poi lo sguardo del paese dovrà rivolgersi in avanti: fra qualche settimana due donne, Michelle Bachelet e Evelyn Matthei, si contenderanno la presidenza. In un paese che, 40 anni dopo, continua a essere diviso. “Tutti i paesi che hanno vissuto conflitti recenti portano delle ferite, ma in Cile sono più dolorose, perché c’è una classe politica che non riesce a riconoscere quello che è successo”. L’analisi è di Carolina Tohà, figlia di Josè, ex ministro del governo Allende ucciso dal regime. Carolina, fuggita in Italia al momento del golpe, è il sindaco di Santiago: “I cileni sanno come sono andate le cose, conoscono la dittatura e i suoi mali” conclude. “ Ma finché una parte della politica non vorrà ammettere le proprie colpe la storia sarà sempre fonte di divisioni di polemiche”.

Articolo Precedente

11 settembre, la lezione del golpe cileno

next
Articolo Successivo

Alla sbarra i vertici politici del Kenya

next