“La catena di montaggio, la nostra opprimente condizione di schiavitù ad essa, si risente soprattutto nell’entusiasmo…” ricordava Carmelo Bene. L’ultimo degli entusiasmi risale a poche ora fa quando, “Sacro Gra” di Gianfranco Rosi (non l’ho ancora visto e quindi non ne parlerò) ha vinto a Venezia.

Che fate? Cosa sono questi caroselli?

Ah, siccome un documentario ha vinto a Venezia adesso…. Che cuccioli che siete.

Certo, anch’io sono tentato di pensare che la vittoria di un documentario a Venezia potrebbe costituire un’ottima possibilità, per molti documentaristi italiani, di proseguire con più spazio e supporto, la propia attività, o – se lo desiderano – di dimostrarsi capaci di misurarsi con il film vero e proprio.

Per fare un esempio che esca dai nostri confini, possiamo dire che uno come Ulrich Seidl – che ben conosco e di cui da anni mi occupo e ho scritto – sono oltre dieci anni che sta spiegando come sia possibile che documentario e film tradizionale, possano non solo camminare insieme, ma fondere i propri linguaggi, orizzonti e destini.

Il documentario può insegnare allo spettatore a dire la verità, il cinema può insegnargli come la finzione sia, a volte, più efficace nel dire la verità. Seidl riesce a tenere tutto insieme, senza sconti o retoriche d’accatto, nel suo cinema la gente fa cagare e, al contempo, tenerezza; ecco la ricetta magica.

Ripugnanti meraviglie, questo è quello che siamo.

Non vi fidate? Guardatevi le sue cose “vecchie” da “Canicola” e, a ritroso, i suoi documentari e avrete tutti gli elementi per giudicare. Ma ne riparleremo di Siedl.

E dunque, dicevamo, un documentario che s’impone a Venezia, dovrebbe consentire a tutti i bravi documentaristi di svolgere ancor meglio il proprio lavoro o di misurarsi col film; ecco, come mai ho l’impressione che accadarà l’esatto opposto?

Perchè temo che saranno i più spompi e retorici fra i registi italiani a buttarsi a pesce sul documentario, fottendo così lo spazio, le risorse e la credibilità faticosamente raggiunta in questi anni dagli artigiani del documentario stesso?

Le armi sono le solite; retorica, politically correct e pruriti vari.

Ecco dunque in arrivo, temo, sfinenti chiacchierate in monolocali di giovani precarie dei call center in attesa del “talent” che svolti la loro vita, pomeriggi al parco con coppie omosessuali che ci “raccontano la loro esperienza” (e quindi trattati come bestiole da esibire nel circo del nuovo sentimentalismo che sventola loro i diritti per meglio rapinarli dei sogni). E ancora prostitute che sognano di andarsene dalla strada e che verranno accontentate spedendole dall’altra parte dello stesso marciapiede, a fare le unghie alle signore del quartiere o a lavare i bicchieri dentro un bar (questi sono i sogni coi quali invitiamo la gente ad abbandoare i propri incubi). Disoccupati in esaurimento che passano la giornata a giocare ai videopoker ma poi, una sera “incontrano Dio”. E infine, non può mancare, cibo, “la magnaza” come la chiamiamo a Bologna; e via dunque con un viaggio nell’Italia “che ci piace” fra spadellatori nevrastenici, diversamente scolarizzati che si fanno chiamare chef e pornocasalinghe scongelatrici di sughi pronti ma ehi… con tanta simpatia, etc… Tutti scimmiottatori dei veri, ce ne sono – non pochi anche in tv – grandi della cucina.

E nel frattempo, i nostri cari vecchi documentaristi, sgomenti, siedono sul letto, con gli ansiolitici pronti sul comodino. “Ma non avevamo vinto noi?” si domanderanno.

Sono pessimista? Può essere e spero di sbagliarmi, ma trovo che l’ottimismo sia lo stupro dei distratti e, potendo, fra i tanti sbagli che faccio, questo me lo eviterei. Nemmeno tanto per il dolore sapete, quanto per il tempo perso, che vale più di ogni altra cosa.

Ecco perchè paradossalmente se esiste una chance che la vittoria di Rosi offre a chi lavora con il documenatrio e proprio quella di – apparentemente – abbandonarlo e allargare il perimetro del proprio orizzonte, di tradirlo (se permettete la provocazione).

Una sfida che, nel senso inverso, è già stata raccolta da tempo se è vero che alcuni dei migliori registi italiani stanno già ragionando, filmando, raccontando il nostro paese con uno sguardo molto vicino (ho detto vicino, non identico) a quello del documentarista. Nomi famosi? Paolo Sorrentino. Un’altro? Matteo Garrone. Lo stesso Carlo Mazzacurati, se ci pensate bene. E tanti altri.

Certo, i loro sono film, ma essi hanno un rispetto tale della realtà, della sua feroce inconfutabilità, del suo offrirsi per dettagli che, sotto un certo aspetto, stanno lavorando a “documentari aggiustati” con le giuste bugie.

Guardatevi un piccolo, quasi smarrito, gioiello noir di Matteo Garrone (“L’imbalsamtore“) e capirete di cosa sto parlando. Un nano imbalsamatore che s’innamora – inutilmente – di un giovane tanto aitante quanto destinato ad andarsene, non è un plot di David Lynch. Guardateli quei due, seduti sulla spiaggia, uno di fianco all’altro, sorridersi in silenzio mentre danno le spalle alle orride baraccopoli abusive del litorale campano e i night club coi trans. Due sfigati, uno bello e uno brutto, fra la camorra e il mare. Fiction? Certo, come no…

Le parole che questi registi sanno togliere dalla bocca dei loro protagonisti, sono la misura di incidenza del documentario, del pensare – e in certi casi filmare – da documentarista, nel loro cinema.

Sembrerà provocatorio, ma questo è il momento nel quale i documentaristi devono rispondere alla sfida. Fra l’altro partono avantaggiati perchè hanno già capito che nel quotidiano degli esseri umani, in quelle stanze dove il ritmo e il suono della vita provano a mischiarsi, si annida il più formidabile dei racconti. Che bastava tacere per poter dire una cosa che nessuno aveva mai ascoltato prima.

Fateci vedere – una volta di più – dove stiamo andando, diteci cosa c’è dietro l’angolo voi che, prima di tutti gli altri, avete deciso che scoprire tutto questo era la vostra vita.

Fateci strada e avrete vinto, ma stavolta sul serio.

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