Mai, dalla fine della Guerra Fredda, i rapporti tra Stati Uniti e Russia sono stati così cattivi. Lo riconosce la politica americana. Lo riconoscono tutti i principali media Usa, che arrivano ad adombrare anche la possibilità di un conflitto militare tra forze russe e americane nel teatro di guerra siriano. Il peggioramento nelle relazioni non riguarda soltanto il rapporto tra i presidenti, Barack Obama e Vladimir Putin, due leader che non si sono mai trovati particolarmente in sintonia.

Il raffreddamento dei rapporti è ormai ben più largo e coinvolge interi settori della politica e dell’opinione dei due Paesi. Nelle scorse ore Harry Reid, leader democratico del Senato, e lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, hanno detto di aver ricevuto una richiesta di incontro da parte di una delegazione di parlamentari della Duma. Entrambi hanno rifiutato. “Non so cosa i russi abbiano da aggiungere al dibattito americano, considerato che sappiamo quali sono le loro posizioni”, ha detto Ben Rhodes, consigliere di Obama. Stessa scarsa considerazione per la controparte la dimostra Alexei Pushkov, a capo della Commissione Esteri del Parlamento russo, che in un tweet ha scritto: “Obama si è trasformato ormai in un presidente di guerra”.

L’incontro del G20 a San Pietroburgo non ha riavvicinato le posizioni. Anzi, da un certo punto di vista, ha ulteriormente allontanato Washington da Mosca, con la dichiarazione di Putin secondo cui “in caso di azione militare, la Russia aiuterà Damasco come ha fatto finora, fornendo armi e tramite la cooperazione economica”. Le parole del presidente russo, che potrebbero alludere a un pericoloso allargamento del conflitto, non hanno comunque preso di sorpresa l’amministrazione americana. E’ giorni infatti che i consiglieri di Obama e i militari del Pentagono valutano i rischi di un attacco a uno dei più fidati alleati della Russia in Medioriente. Quando il generale Martin Dempsey, chairman del Joint Chiefs of Staff, ha testimoniato davanti alla Commissione Esteri della Camera, il tema di un coinvolgimento militare della Russia è stato affrontato. Dempsey ha spiegato che non soltanto la Russia potrebbe inviare a Damasco componenti per la difesa anti-missilistica, ma che potrebbe anche rimpiazzare quelle strutture militari distrutte da un eventuale blitz Usa.

Proprio durante le audizioni della Camera un deputato repubblicano, George Holding, è andato ancora più in là e ha chiesto a Dempsey se i militari Usa stanno pensando alla possibilità di un eventuale attacco russo agli Stati Uniti. Dempsey ha risposto spiegando che non vale la pena fare ipotesi, ma ha aggiunto che “la Russia è in grado di mettere in campo un ampio raggio di opzioni, dalla cyberguerra sino alle armi nucleari”. Se il segretario di stato John Kerry ha esplicitamente escluso che i russi vogliano entrare in guerra a causa della Siria, l’opinione a questo punto più diffusa negli ambienti politici e militari americani è che “se distruggiamo la tecnologia militare siriana, Putin la rimpiazzerà”, come ha spiegato un colonnello in pensione, Ralph Peters.

A questo punto, al di là del crollo verticale nelle relazioni russo-americane e dei nuovi venti di “guerra fredda”, ciò che sembra preoccupare di più l’opinione pubblica è però una cosa: l’escalation militare in Siria. Se Barack Obama continua a sostenere che il blitz contro Damasco sarà “limitato e rivolto a obiettivi specifici”, la preoccupazione di molti è che l’attacco possa allargarsi e diventare un’altra vera e propria guerra. Sabato pomeriggio a Times Square, a New York, e lunedì davanti alla Casa Bianca si svolgeranno manifestazioni dei gruppi pacifisti – tra questi l’International Action Center, il Syrian American Forum e la United Anti-War Coalition – uniti sotto lo slogan “NO a un’altra guerra”. Sara Flouders, una dei portavoce del movimento, racconta che “i costi delle guerre in Iraq e Afghanistan hanno superato i 4000mila miliardi di dollari. Ogni missile cruise che gli Stati Uniti vogliono sparare contro la Siria costa un milione e mezzo di dollari. I profitti del produttore di missili, la Raytheon, possono crescere, ma le nostre città stanno crollando e la gente non ha lavoro. Abbiamo bisogno di fondi per il lavoro, la sanità e l’educazione, non miliardi buttati via in nuove guerre e distruzioni”.

Proprio le preoccupazioni di natura interna sembrano fondamentali per orientare buona parte dell’opinione pubblica americana contro il blitz militare. Il più recente sondaggio Washington Post/ABC News mostra che il 59 per cento degli americani rimane contrario all’intervento. Soltanto il 36 per cento lo appoggia. Un consenso al conflitto mai così basso negli ultimi 20 anni. Il dato influenza l’orientamento di molti deputati e senatori, che dalla prossima settimana dovranno discutere e poi votare sull’invio di truppe in Siria. Nonostante il pressing di molti esponenti dell’amministrazione sui congressmen – e nonostante il fatto che tutti i leader democratici e repubblicani appoggino la Casa Bianca – una parte consistente del Congresso resta scettica.

Al Senato i repubblicani più riottosi all’idea del blitz stanno cercando di raccogliere i 40 voti necessari a bloccare la discussione sull’autorizzazione, già mercoledì prossimo. E alla Camera meno di una dozzina di repubblicani hanno annunciato il voto positivo. Ancor più combattuta la situazione tra i democratici, dove le istanze anti-guerra e le preoccupazioni per la crisi economica sono più forti. Obama ha dunque ancora molta strada da fare per guadagnarsi il via libera del Congresso. E non sembra ancora aver deciso cosa fare nel caso questo via libera non ci sarà. Al G20 di San Pietroburgo, il presidente si è rifiutato di rispondere a una domanda esplicita sulla questione. Il suo vice-consigliere alla sicurezza nazionale, Tony Blinken, ha però affermato che “non è né desiderio di Obama, né sua intenzione, usare l’autorità di guerra nel caso in cui il Congresso non lo dovesse appoggiare”. Quello che appare certo è che, nel caso non ci fosse questo appoggio, Obama si troverebbe di fronte a un dubbio risultato: aver riportato l’America a tensioni e paure da “guerra fredda” e al contempo non essere risultato un credibile commander-in-chief per deputati, senatori e maggioranza degli americani.

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