Buu, fischi, pernacchie, nacchere e quant’altro. Questa l’atmosfera da “Corrida” di Corrado che quest’oggi molti lettori dei quotidiani italiani hanno recepito, leggendo, in merito alla proiezione stampa al Lido di Venezia del film L’intrepido di Gianni Amelio.

Lanci d’agenzia birichini hanno reso una minuta contestazione una sorta di ululato perenne e spieghiamo subito perché. Eravamo lì, nell’immensa sala Darsena (circa 1.300 posti) per la prima proiezione del film interpretato da Antonio Albanese, a nemmeno dieci poltroncine di distanza da quattro ragazzini (qualcosa come tre maschi e una femmina) che al primissimo titolo di coda hanno letteralmente urlato un fortissimo “buuu”, per poi scappare, al buio e di corsa, fuori dalla sala.

Dopo pochi secondi ai quattro briganti del loggione si è aggiunta una decina di persone che ha fischiato per due secondi come si potrebbe fare col proprio cane per richiamarlo dopo che si è allontanato troppo. Senza dimenticare che contemporaneamente un centinaio di persone, numero più numero meno, ma visivamente la quantità una volta accese le luci in sala si è presto calcolata, hanno applaudito il film.

Questi i fatti, inoppugnabili. E di testimonianze di quello che è accaduto ne potremmo trovare a decine. Eppure qualcosa nella gerarchia dell’informazione è andato storto. Non mettiamo in dubbio la presenza in sala dei colleghi d’agenzia, non mettiamo in dubbio nemmeno la buona fede di chi ha passato parola per chi non c’era, ma come si è potuto arrivare ad una notizia come “la sala fischia Amelio”? 15, 20, facciamo anche 30 o 40: ma per arrivare a quelle 900, 1.000 persone che affollavano la sala Darsena mercoledì mattina ce ne passa.

Sarà che il film ci è piaciuto e che allora ci dispiace, sarà anche che una produzione cinematografica con un titolo di giornale così perde di botto centinaia di spettatori privati della curiosità di pagare il biglietto; sarà pure che alle proiezioni stampa di un festival ci entra oramai chiunque e magari in mezzo ad accreditati di fortuna c’è pure qualche spiritoso con un po’ di pregiudizi e che non vede loro di esibirsi.  

Sarà però anche che a molta critica “romanocentrica” il film non è piaciuto e che è bastato un attimo per dire: “i fischi? Beh faceva schifo”. Dimenticando che i due concetti non sono necessariamente di causa ed effetto, neanche ribaltandoli al contrario, ancor di più di fronte alla lillipuziana “contestazione”.

Dopo tanti anni di proiezione stampa al festival di Venezia, però, non ci si stupisce più di nulla: sghignazzi, risate sguaiate, grida, e chi più ne ha più ne metta per una categoria – come quella della critica cinematografica – non più nobile, mescolata alle masse di giovani corrispondenti web e di tanti colleghi che fanno cronaca pura.

E poi questo spleen di fondo, dove nessun film se non fa “ride” o “piagnere”, non merita nemmeno un’occhiata. Questa atavica insofferenza e impellenza ad uscire dalla sala per andare a cena, alle feste e all’osteria. Questa deviante e prepotente ricetta del film perfetto che Tizio o Caio con un film da tre ore, o con un film da 70 minuti, non hanno seguito.

Eppure, quella del critico, era una professione competente e peculiare: conoscenza della storia e delle teorie del cinema (o del teatro, o della musica, o dell’arte in genere), tollerabilità naturale per ogni tipo di cinematografia (“oddio er cinese de quattro ore”), capacità argomentativa e dialettica rispetto ad ogni aspetto della visione, esperienza orgasmica/mistica per i movimenti di macchina da presa.

Invece la stanchezza e l’età pensionabile (molti sono già in pensione ma continuano a venire al Lido) riduce tutto a macchietta, a luogo comune, a frasi imbarazzanti (“è bello perché mi piace”), a pollice verso da Colosseo. Quanto è vero che c’è bisogno di rottamazione.

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