Parlare dei Metallica è appagante quanto ostico: un po’ come per il calcio in Italia, nel mondo siamo tutti abbastanza “heavy” da poter dire la nostra a riguardo, spesso cadendo nel ridicolo.

La litania, ad esempio, per la quale avrebbero da tempo perso la loro venatura più metal in nome di un rock velatamente (neanche troppo) commerciale fa acqua da tutte le parti, se non ridere i polli: in primo luogo perché gli ultimi dischi dei Metallica conservano comunque una complessità ed una durata media – per pezzo – che rimane difficile ai più, in secundis perché i Metallica ed il “metal”, inteso nella maniera in cui provoca eroiche erezioni a molti, sono due cose inscindibili: come dire che Sophia Loren non è più identificativa della tipica sensualità mediterranea. Balle.

Potremmo poi disquisire circa il fatto che lo stesso merito andrebbe attribuito a Slayer, Anthrax e Megadeth o arrivare addirittura a sostenere che la pennata di Ritchie Blackmore in Highway Star ricorda molto da vicino le ritmiche tipicamente thrash: come non citare allora l’apporto fondamentale di Tony Iommi e della musica dei Black Sabbath? Ma anche chi se ne frega, per ora.

Ne è passato di tempo dal primo, fulmineo Kill ‘Em All (1983) cui seguiranno altri tre album di livello spaziale: l’ultimo di questi, Master Of Puppets (1986), rappresenta la stele di rosetta del genere. Un po’ per necessità (un po’ no), con il seguente …And Justice For All (1989) si chiude il primo periodo della band che già famosa in giro per il mondo era ormai più che una promessa. I Metallica a quel punto si trovarono davanti ad un bivio: scimmiottare se stessi e recitare lo stesso copione di sempre (che è poi quello che hanno fatto gli Slayer) o prestarsi chirurgicamente ad un’operazione differente: quella che li avrebbe portati a diventare la rock band più famosa del pianeta. La collaborazione con l’arcigno produttore Bob Rock nacque così e c’è chi, come il giornalista Mick Wall, va oltre: “Rischiavano di diventare gli Iron Maiden della loro generazione, facendo un album dopo l’altro, sempre uguali a se stessi, come i Judas Priest prima di loro, e i Black Sabbath prima ancora, e così via”.

Con Load (1996) e Reload (1997) i quattro si risistemano per l’ennesima volta il pelo, abbracciando una sorta di hard-rock blueseggiante che se non altro è difficile attribuire a qualcun altro. Traditi forse dall’operazione commerciale di un doppio album che poteva tranquillamente ridursi ad uno, i Metallica non riescono – nell’enorme mole di pezzi editi – a rendere giustizia ad alcuni brani comunque sopra le righe, pur distanti anni luce già dal precedente Black Album (1991). Tra questi e il successivo inedito, il singolo I Disappear (2000), si colloca anche la battaglia legale che li vede tra i principali artefici della chiusura di Napster: con l’impavido Ulrich che raccontano irrompere in prima persona negli uffici dell’azienda statunitense con tanto di tabulati alla mano. Spompati dalle polemiche, orfani ormai da anni del quid del fu Cliff Burton, i Metallica entrano in studio per dar vita – tra mille ripensamenti – a quello che, banalmente, potremmo definire un disco mal riuscito: St. Anger (2003). Ucciso dalla critica, in parte anche dai dati di vendita, St. Anger è un album malato, che si perde nella lunghezza eccessiva dei suoi brani ed è frutto, sopratutto, di una produzione infantile se non orribile, che ne ha ucciso preventivamente ogni prospettiva.

Per quanto faticheranno ad ammetterlo anzitutto a loro stessi, è solo in seguito al contraccolpo emotivo di St. Anger che i ‘Tallica torneranno sui loro passi con un album come l’ultimo Death Magnetic (2008), che suona anzitutto come una disconferma totale del loro recente passato: seguito poi dal colpo ad effetto della collaborazione con Lou Reed in Lulu (2011), altro disco nato già morto. Altro esempio, se non altro, del loro infinito coraggio: per una band che avrebbe potuto, da un certo momento in poi, percorrere la strada della banalità conservando – in parte – quella stessa frangia di pubblico che gli ha invece voltato le spalle salvo celebrarne i meriti occasionalmente o citarne i primi 5 album ogni qualvolta urga la necessità di difendere la purezza della “razza” di fronte alle pericolose sperimentazioni che i quattro “horsemen” si sono permessi: al netto di un tifo spregiudicato, che anziché aspettare i propri leader al traguardo li rincorre quasi arrancando.

Articolo Precedente

Musica nelle scuole: la Cinderella delle arti

next
Articolo Successivo

Lo specchio riflesso degli Arcade Fire

next