L’hanno chiamata “flood the zone strategy”, una strategia a macchia d’olio, massiccia, per ottenere il sì del Congresso al blitz militare in Siria. In queste ore Barack Obama sta facendo quello che per anni in molti gli hanno rimproverato di non fare. E cioè coltivare relazioni personali con deputati e senatori per ottenere l’appoggio alla strategia contro il governo di Damasco. Martedì alla commissione Affari esteri del Senato sono attesi il capo del Pentagono Chuck Hagel e il segretario di Stato John Kerry, forse il politico dell’amministrazione che in queste ore ha più insistito per l’intervento. Briefing e incontri tra funzionari dell’amministrazione e congressmen si moltiplicano a Capitol Hill, mentre Obama dovrebbe essere riuscito a ottenere il sostegno di due “falchi” repubblicani, i senatori John McCain e Lindsay Graham (rispettivamente a sinistra e a destra nella foto).

Proprio l’incontro tra Obama e i due repubblicani era considerato dalla Casa Bianca fondamentale per arrivare all’autorizzazione del Congresso. McCain e Graham, nei giorni scorsi, avevano minacciato voto contrario, nel caso la risoluzione di Obama non contenesse l’accenno a un più deciso attacco contro le truppe di Damasco. Ieri, uscendo dall’incontro col presidente, i senatori hanno spiegato che il loro sì non è ancora certo – “Mi devo ancora convincere”, ha detto McCain – ma hanno lasciato intendere di essere pronti a offrire il loro appoggio. “Il no del Congresso all’intervento sarebbe una catastrofe”, ha spiegato McCain. “Se non agiamo, l’Iran riceverà un segnale di debolezza da parte degli Stati Uniti”, ha aggiunto Graham.

In cambio dell’appoggio, i due “falchi” repubblicani sembrano aver ottenuto da Obama due cose: da un lato, un’azione militare più incisiva, che punti a indebolire in modo “sostanziale” il sistema di artiglieria e di aviazione con cui il governo di Assad avrebbe condotto l’attacco con il gas sarin; dall’altro, la promessa di aiuti consistenti ai ribelli siriani. In particolare Obama ha cercato di rassicurare i più interventisti tra i repubblicani spiegando che le prime 50 cellule di attivisti anti-Assad, addestrati dalla Cia al di fuori del Paese, stanno in queste ore penetrando all’interno dei confini siriani. Per ottenere invece l’appoggio dei settori più moderati, soprattutto di quei democratici timorosi per l’apertura di una nuova disastrosa guerra sull’esempio di quella in Iraq, Obama si è detto disponibile a modificare il linguaggio della bozza di risoluzione inviata al Congresso, aggiungendo un’esplicita promessa a non inviare truppe di terra in Siria.

Sempre per cercare di conquistare il sì dei più riottosi tra i suoi compagni di partito, il presidente ha organizzato una conference call con 127 deputati democratici, in cui sono stati ancora una volta esposti i dettagli delle prove che, secondo l’amministrazione americana, incastrerebbero Assad. Come hanno spiegato McCain e Graham, uscendo dall’incontro alla Casa Bianca, non c’è comunque ancora stato da parte di Obama e dei suoi un esplicito riferimento a quali obiettivi militari saranno colpiti durante il blitz.

Nonostante la “strategia a macchia d’olio” per conquistare l’appoggio del Congresso, la marcia verso l’intervento in Siria continua comunque a non essere particolarmente tranquilla. Oltre alle obiezioni e ai dubbi di molti senatori e deputati, nelle ultime ore sono emerse anche voci su possibili divisioni all’interno dell’amministrazione. Obama, spiegano fonti non ufficiali della Casa Bianca, si è mosso in piena autonomia e indipendenza. “Il presidente ha deciso da solo sulla Siria”, hanno spiegato le fonti ad Associated Press. Al momento della decisione di passare dal Congresso per ottenere l’autorizzazione, nello studio di Obama alla Casa Bianca non c’erano né il segretario di stato, John Kerry, né il segretario alla difesa, Chuck Hagel. I due sarebbero stati informati soltanto a cose fatte.

Il presidente starebbe modellando la sua politica internazionale senza ricorrere a consultazioni con Dipartimento di Stato e Pentagono, e preferisce invece contare sul giudizio di vecchi amici e collaboratori, come Denis McDonough, che è ora il suo chief-of-staff, e la consigliera alla sicurezza nazionale Susan Rice. Divisioni e aperti contrasti starebbero anche nascendo tra Kerry e Hagel. Kerry è stato forse il rappresentante dell’amministrazione che ha più spinto per l’attacco alla Siria. “La storia ci giudicherebbe in modo straordinariamente severo, se dovessimo chiudere gli occhi di fronte all’uso di armi di distruzione di massa da parte di un dittatore”, ha detto Kerry. Molto più scettico, e preoccupato per i possibili sviluppi, appare invece il segretario alla difesa Chuck Hagel, che ha assistito a gran parte del dibattito sull’intervento in Siria dall’Asia, dove si trovava in visita di stato. Hagel ha detto che le truppe americane “sono pronte”, ma in privato ha dovuto ascoltare i dubbi e le resistenze dei generali Usa, soprattutto quelle del Joint Chiefs Chairman, il generale Martin Dempsey.

In una serie di comunicazioni con membri del Congresso, Dempsey ha spiegato che con ogni probabilità anche un attacco limitato contro il governo di Damasco avrebbe conseguenze imprevedibili. “Una volta che entriamo in azione, dovremo prepararci a un maggiore coinvolgimento”, ha scritto Dempsey al senatore democratico Carl Levin. Dempsey ha aggiunto che il blitz contro Assad porterà sicuramente a vittime civili e a un ruolo ben più determinante nell’area per gli “estremisti: al Qaeda, Hezbollah e Iran”. I militari insomma frenano. “Sarà una guerra serissima e davvero dura”, ha spiegato l’ex-capo del Comando centrale Usa, il generale James Mattis.

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