Vale la pena di leggere i commenti dei lettori del sito del “New York Times” per capire quanto poco disponibile a un intervento in Siria sia l’opinione pubblica americana. “L’inesperienza politica e l’inettitudine di Obama hanno ancora una volta spinto gli Stati Uniti in un angolo”, scrive un lettore di Albany. “Perché noi? Perché sempre noi ad attaccare?”, scrive un altro lettore, che si definisce “Stufo”. “Non appena pensi che l’amministrazione Obama stia dando il peggio di sé, arriva la notizia dell’intervento unilaterale in Siria. Persino Bush aveva l’Inghilterra e altri alleati al suo fianco nell’imbroglio della guerra in Iraq”, lamenta un altro lettore del giornale. Alcuni ricordano che ad Obama, nel 2009, è stato dato il Nobel per la Pace e non ritrovano nell’attuale attitudine “guerrafondaia” le promesse di un nuovo ordine che il premio aveva fatto nascere.  

IL BIVIO DI OBAMA – Il possibile attacco alla Siria sta diventando uno dei momenti più difficili per la presidenza di Barack Obama: il momento che non solo rischia di offuscare per sempre l’appeal che il presidente Usa ha avuto presso l’opinione progressista del suo Paese – e del mondo – ma anche di mettere in serio pericolo le strategie internazionali Usa nei prossimi anni. Iniziamo dall’opinione pubblica. Un sondaggio Reuters, effettuato tra il 19 e il 23 agosto scorso, mostra che il 60 per cento degli americani è contrario ad ogni tipo di azione militare in Siria. Soltanto il 25 per cento si dice disponibile a sostenere un’azione militare, nel caso di uso di armi chimiche, contro un 46 per cento che si oppone all’invio di truppe anche in questo caso. Le immagini e i racconti dei giorni scorsi, dopo che le armi chimiche sono state effettivamente usate, potrebbero aver cambiato qualche numero. Il dato politico resta però lo stesso. La maggioranza dei cittadini americani non vuole che i propri soldati bombardino la Siria.  

LO SPETTRO DI IRAQ E AFGHANISTAN – Gli orientamenti dell’opinione pubblica Usa sono un problema vero per Obama, presidente che ha fatto campagna elettorale nel 2008 all’insegna della fine delle guerre in Iraq e in Afghanistan e che più volte, nel passato, ha cercato di ridefinire la politica internazionale Usa nel quadro di una maggior concertazione con Onu e alleati. A questo punto, invece, mentre la flotta americana si muove verso il Mediterraneo orientale carica di missili Tomahawk che dovranno servire per attaccare Damasco, la Casa Bianca si prepara alla guerra senza aspettare il via libera dell’Onu e senza nemmeno il sostegno del tradizionale alleato britannico. Fonti non ufficiali dell’amministrazione sostengono che Obama si sia deciso perché convinto che il veto russo e cinese renderà comunque impossibile l’uso della forza militare sotto egida Onu in Siria, ma soprattutto perché il regime siriano avrebbe varcato la “red line”, la linea rossa che Obama tracciò un anno fa contro l’uso delle armi chimiche.

“NON SI PUO’ TORNARE INDIETRO” – La strategia in Siria continua a essere definita “limitata e non ancora decisa nei dettagli” da fonti della stessa Casa Bianca – probabilmente uno-due giorni di intenso lancio di missili da almeno quattro dei detroyers americani nel Mediterraneo – ma a questo punto non sembra che Obama e i suoi possano più tornare indietro. Ogni oscillazione sarebbe interpretata, all’interno e all’estero – in Siria ma soprattutto in Iran – come una prova di debolezza. “L’attacco che Obama sta preparando dimostrerà alla Siria e a tutti gli altri che c’è un costo che gli Stati Uniti sono disposti a imporre per aver valicato una linea imposta dagli Stati Uniti stessi”, ha scritto Richard Fontaine, il presidente del think-tank conservatore “Center for a New American Security”.  

I TIMORI DEL CONGRESSO – La sicurezza dei settori più interventisti, eredi del pensiero neocon in auge con George W. Bush, non pare però condivisa da altri settori del mondo politico e militare Usa. Ciò che complica ulteriormente la politica di Obama. Da un lato, per il presidente, c’è un problema che si chiama “Washington”. Nelle ultime ore la Casa Bianca ha fatto di tutto per raccogliere attorno a sé l’appoggio del Congresso. I leader democratici e repubblicani sono stati informati giovedì sera, durante una conference call, delle intenzioni della Casa Bianca e delle prove che renderebbero certo l’uso di armi chimiche da parte di Assad. Una comunicazione intercettata tra ufficiali di alto rango di Assad, in cui si parla di un uso di armi chimiche “andato ben oltre l’intenzione originaria”, sarebbe la prova più forte presentata dall’amministrazione.  

La conference call, cui hanno partecipato per l’amministrazione il segretario di Stato John Kerry, il capo del Pentagono Chuck Hagel e il direttore dell’Intelligence James Clapper, ha convinto buona parte della leadership dei due partiti. Ma, da parte loro, i democratici stanno per iniziare una difficile campagna elettorale, quella per le elezioni di midterm 2014, e dovranno presentarsi davanti a un elettorato non soddisfatto dalla ripresa economica e demotivato per la pessima prova del loro presidente. Le resistenze di deputati e senatori è stata riassunta da Mike Rogers, repubblicano della Commissione Intelligence della Camera, secondo cui “quando si prende una decisione di questa importanza, bisogna conquistare l’appoggio di ogni membro del Congresso e del pubblico. Niente di tutto ciò è avvenuto”.  

I DUBBI DEI MILITARI – Oltre ai problemi con il Congresso, Obama deve vedersela però soprattutto con i dubbi dei militari. Con le ferite dell’Afghanistan e dell’Iraq ancora aperte, e un budget che continua a restringersi, i generali Usa non mostrano particolare voglia di impegnarsi in un nuovo conflitto. Per mesi il Pentagono ha ascoltato le affermazioni di Obama sulla Siria – generalmente contrarie a ogni azione militare – e non ha fissato Damasco come propria priorità. Gli ultimi eventi, e il cambio di politica della Casa Bianca, mutano queste priorità ma non convincono i militari. Le uniche azioni efficaci, dicono fonti del Pentagono, sono quelle con obiettivi militari chiari e limitati nel tempo. Nel caso dell’eventuale attacco in Siria non sembra esserci nessuna di queste condizioni. Il Pentagono non ha mai mostrato del resto molta considerazione per le capacità di “commander-in-chief” di Obama e la gestione del caso siriano sembra confermare questa opinione. “C’è un’ingenuità incredibile da parte della nostra classe politica circa gli obblighi in materia di politica estera, e un semplicismo terrorizzante sugli effetti che il potere americano può realizzare”, ha spiegato il generale in pensione Gregory S. Newbold, che ha servito durante la guerra in Iraq. Molti militari sono in effetti perplessi di fronte a un uso della forza come “misura punitiva”, senza che ci sia una vera strategia per indebolire l’arsenale militare di Assad o aiutare i ribelli. A preoccupare è però soprattutto un altro elemento. In questo momento gli Stati Uniti sono impegnati nel ritiro dall’Afghanistan. Un loro impegno in Siria potrebbe rallentare le operazioni, precipitando il Paese in un nuovo conflitto senza garanzie. “Le conseguenze di un nostro impegno in Siria possono essere devastanti – ha scritto in un suo commento un altro militare, il colonnello dei Marines Gordon Miller, oggi membro del “Center for a New American Security” -. “Se il presidente Assad dovesse resistere agli attacchi, questo sarebbe un colpo significativo alla credibilità americana e ci costringerebbe ad allargare l’assalto in Siria per raggiungere gli obiettivi originari”.

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