Facebook ha pubblicato ieri, per la prima volta i numeri relativi alle richieste di informazioni che riceve dalle Autorità in tutto il mondo. Google, Twitter e Microsoft così come molti altri popolari fornitori di servizi online, già lo fanno da tempo.

Le cifre relative al primo semestre 2013, sebbene aggregate e poco significative, raccontano di Autorità italiane [n.d.r. non è specificato quali] più curiose di quelle di ogni altro Paese europeo eccezion fatta per quelle tedesche ed inglesi e tra le più curiose al mondo, seconde solo, oltre che a Germania e Inghilterra, Stati Uniti e India che, però, hanno un numero di utenti decisamente superiore a quelli italiani.

Nei primi sei mesi del 2013, infatti, le Autorità italiane hanno bussato alla porta di Facebook oltre 1700 volte chiedendo informazioni relative su più di 2300 utenti. Sono numeri importanti se confrontati con quelli della più Parte dei Paesi in giro per il mondo che sono ad una, due o, al massimo tre cifre.

Dopo Stati uniti, India e Regno Unito siamo, in tutto il mondo, il Paese nel quale le Autorità hanno richiesto a Facebook informazioni sul maggior numero di account.

Un primato che – nonostante l’approssimazione dei numeri – non può non suscitare qualche riflessione soprattutto perché accompagnato alla percentuale, pari quasi al 50%, di casi nei quali Facebook ha ritenuto che le richieste delle nostre Autorità non meritassero di essere accolte e le ha, quindi, respinte al mittente.

Nel 47% delle ipotesi, infatti, il popolare social network ha risposto “picche” all’Autorità italiana che chiedeva di saperne di più di uno dei propri utenti.

Poco confortante, al riguardo, la circostanza che tale percentuale sia in linea con quella della maggior parte degli altri Paesi con alcune vistose eccezioni positive e negative: in Irlanda, ad esempio, le Autorità hanno sempre ottenuto le informazioni che hanno richiesto mentre in Egitto, Russia e Cambogia – solo per citarne alcune – le informazioni richieste sono sempre state negate.

Sono solo numeri, peraltro di modesta qualità – per stessa ammissione di Facebook che promette di continuare a lavorare per fornirne sempre di migliori – che, tuttavia sollevano un problema contiguo – benché non perfettamente sovrapponibile – a quello rimbalzato, di recente, agli onori della cronaca internazionale nell’ambito del caso Prism: quanto e come lo Stato può o, addirittura, deve sapere per garantire ai propri cittadini un’adeguata sicurezza e per reprimere il crimine?

E’, infatti, ormai evidente che nella nostra nuove dimensione di “essere digitali”, le tracce che lasciamo online sono talmente tante e così profonde da consentire alle Autorità – attraverso l’accesso alle informazioni contenute da un numero di soggetti privati importante ma non enorme – di ricostruire la nostra esistenza, quasi minuto per minuto, in pochi click e con un modestissimo sforzo.

Ma quanto è giusto che lo Stato sappia davvero di noi e, soprattutto, in quali casi e con quali garanzie?

A leggere il report pubblicato da Facebook – al pari, per la verità, di quelli già pubblicati dagli altri giganti del web – c’è un dato che lascia più perplessi degli altri: l’Autorità sembrerebbe chiedere di più di quanto, leggi alla mano sulla base di quanto dichiarano, Facebook, Goggle e gli altri, ritengono che sia legittimata a sapere o, almeno, sembrerebbe farlo attraverso forme e procedimenti non ortodossi o irregolari.

Non c’è altra spiegazione per il gran numero di rifiuti che Google e Facebook oppongono alle domande di informazioni delle nostre Autorità.

Lo Stato è spione e impiccione più del dovuto, le regole sono poco chiare o i giganti del web – al contrario di quanto si è ipotizzato nell’affaire Prism – tutelano la privacy dei loro utenti in modo più rigoroso di quanto sia necessario?

Quale che sia la risposta a queste domande è evidente che il contesto nel quale, quotidianamente, le nostre forze dell’ordine – al pari di quelle di molti altri Paesi – chiedono informazioni sul nostro conto ai tenutari della nostra esistenza in digitale è, allo stato, troppo ambiguo e poco chiaro.

La privacy, anche – e forse soprattutto – nei confronti dello Stato rappresenta, invece, un irrinunciabile diritto dell’uomo e del cittadino.

Sarebbe, probabilmente, opportuno che il Garante per la Privacy, intervenisse per dettare le linee guida nel rispetto delle quali, le nostre Autorità giudiziarie e di polizia possono richiedere a Facebook ed agli altri colossi del web le informazioni che ci riguardano nel rispetto della legge e, quindi, dei nostri diritti.

Tanto varrebbe a sollevare i giganti del web dallo scomodo ruolo di “arbitri” e, talvolta, persino “difensori d’ufficio” della privacy dei propri utenti e, ad un tempo, a fare in modo che il novero delle ipotesi e le forme attraverso le quali l’Autorità può accedere ai nostri dati personali siano determinati da un’interpretazione autentica delle leggi dello Stato e degli accordi internazionali fornita da un soggetto pubblico anziché da una pluralità si soggetti privati, costretti – che ne siano o meno felici – a giocare un ruolo di supplenza che non compete loro.

L’auspicio è che il prossimo report pubblicato da uno dei giganti del web racconti di un’Autorità meno curiosa e, soprattutto, di un’Autorità che quando chiede informazioni le ottiene perché ha, davvero, diritto ad ottenerle.

Ovviamente, ca va sans dire, il primo auspicio è che Stato e soggetti privati raccontino ai cittadini nel modo più trasparente possibile – nei limiti di quanto consentito dalle esigenze di sicurezza – cosa fanno davvero con i nostri dati personali. 

 

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