Mi sono trovata spesso a difendere il turpiloquio di Grillo dagli schizzinosi che lo attaccano per perbenismo linguistico, della serie non-si-dicono-le-parolacce-gnè-gnè-gnè: le parolacce si dicono, eccome, le diciamo tutti e, nel contesto giusto e con i toni giusti, possono avere una funzione liberatoria e a volte persino innovativa, spiazzante. Mi sono trovata spesso a spiegare che il turpiloquio di Grillo è diverso da quello della Lega e di qualunque altro politico, perché viene dalla satira e come tale attacca il potere, ma soprattutto perché, se pronunciato (e agito) da lui nelle piazze, fa ridere e la risata stempera ogni aggressività. Mi sono trovata spesso a correggere chi dice «grillini», spiegando gli impliciti ridicolizzanti e dispregiativi di questa parola e ricordando che nessuno può arrogarsi il diritto di chiamare nessun altro come l’altro non vuole essere chiamato. A questo proposito, nell’ottobre 2012 la lista civica 5 Stelle di Milano mandò persino un comunicato stampa per precisare il linguaggio giusto: non «partito» ma «forza politica», non «grillini» ma «attivisti 5 Stelle» eccetera. E mi trovo spesso, infine, a evidenziare l’ipocrisia che sta dietro a molto linguaggio politically correct, perché non basta certo usare eufemismi né giri di parole per rispettare le minoranze, le donne, i disabili, e nemmeno basta per non essere razzisti.

Perciò quando ho letto il post di Grillo «Gli Houdini della parola» mi sono arrabbiata. Perché dice anche cose giuste, ma è fuorviante ai limiti della disonestà intellettuale. Mi spiego. Grillo giustamente fa appello al potere liberatorio e dirompente del linguaggio schietto, del «dire pane al pane e vino al vino». Ma mischia la lana con la seta e generalizza in modo scorretto. Per ricordare l’ipocrisia e gli eccessi del politically correct cita ad esempio espressioni come: dolce trapasso invece di morte, operatore ecologico invece di spazzino, non vedente invece di cieco. Come non essere d’accordo? Ha ragione: una società non diventa più rispettosa dei disabili (handicappati?) se li chiama non vedenti, né i privilegiati diventano più rispettosi di chi fa lavori umili se dicono operatore ecologico, collaboratrice domestica e così via. Analogamente, un omofobo resta omofobo anche se dice gay invece di frocio, e sappiamo tutti quanto gli omosessuali amino chiamarsi fra loro frocio, frocia e di qui in peggio. Giustissimo.

Ma non è una buona scusa per generalizzare in modo scorretto. Dice Grillo: «Mentre parli devi continuamente e seriamente valutare se ogni parola che stai per pronunciare può urtare la sensibilità di qualcuno: un gruppo religioso, un’istituzione, una comunità, un’inclinazione sessuale, un’infermità, un popolo. Per non avere problemi devi limitarti ai saluti “Buongiorno e non mi faccia dire altro». Nossignore. Chi usa in modo ipocrita il linguaggio politically correct non sta lì a «valutare seriamente» un bel nulla, né si preoccupa di «urtare la sensibilità» di nessuno. L’ipocrita parla per automatismi e conformismo, e si riempie la bocca di parole vuote mentre dentro di sé resta ottusamente ancorato ai suoi pregiudizi, razzismi e privilegi. Viceversa parlare stando attenti, attentissimi a non urtare la sensibilità di nessuno/a è sacrosanto, lo devono fare tutti. Inclusi gli attivisti 5 Stelle. Incluso Grillo, che peraltro ogni tanto piglia uno scivolone e poi deve fare marcia indietro; come quando, per smarcarsi da chi lo accusava di offendere i malati di Alzheimer perché chiamava Prodi «Alzheimer», pubblicò sul blog un video dell’Associazione italiana dei malati di Alzheimer.

Ma non è per parlare politically correct che qualcuno chiama Berlusconi «statista» invece di «evasore fiscale», e qualcun altro può dire che Razzi «non ha una perfetta padronanza della lingua italiana» invece di dargli dell’ignorante: è qui che Grillo mescola gli esempi in modo scorretto (mischa la lana con la seta, dicevo), perché con Berlusconi entra nel gioco politico e su Razzi fa solo una battuta. Quando poi dice che «Napolitano non è neppure nominabile in Parlamento», la questione è ancora un’altra: il rispetto della massima carica dello Stato. In tutti i casi, insomma, non c’entra niente la critica al politically correct. Ma soprattutto: parlando di Berlusconi, Razzi eccetera, non si parla più di categorie svantaggiate. L’attenzione della lingua – del pensiero, dei sentimenti, di tutta la vita – va infatti rivolta anzitutto ai gruppi sociali più deboli: per etnia, genere sessuale, colore della pelle, condizione economica, malattia o altro. È qui che la sensibilità linguistica migliore, quella autentica e non ipocrita, deve applicarsi. Da parte di tutti e tutte. Inclusi gli attiviste e le attiviste 5 Stelle. Incluso Grillo. Che altrimenti lo chiamiamo «grillino».

 

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