Ho ricevuto da una ex collega, si chiama Maria Angioni, una interessante riflessione sui rapporti tra Giustizia e Politica. E’ un po’ controcorrente ma mi sembra intelligente. Mi interesserebbe sapere cosa ne pensano i lettori de Il Fatto.

Ora che il Processo è finito, fermiamoci a riflettere.

Possiamo permetterci ancora a lungo di caricare sulle toghe il peso del ripristino della legalità, mentre altri legiferano e governano assieme ai condannati e pregiudicati, li difendono e li graziano se la sentenza definitiva è in contrasto con il loro potere, colpiscono i magistrati che hanno il dovere di decidere?

Che il Parlamento recuperi, con l’autorizzazione a procedere per i parlamentari, la responsabilità di decidere se continuare a legiferare assieme a chi viola le leggi. E gli elettori chiariscano che cosa vogliono gli Italiani. Se continuiamo a utilizzare la magistratura per fare finta di essere civili, ogni sentenza che tocchi mafie e delinquenti sarà un passo ulteriore verso la dissoluzione del diritto.

L’istituto dell’autorizzazione a procedere, già previsto dallo Statuto Albertino, venne riproposto con l’art. 68 della Costituzione repubblicana quale soluzione di compromesso che si sarebbe dovuta reggere su scelte virtuose. Dall’esame dei casi in cui le Camere hanno negato negli anni le autorizzazioni, emerge però come la natura politica del reato fosse stata sin da subito interpretata in maniera molto estensiva, sino a riconoscerla con riguardo a reati come l’emissione di assegni a vuoto e la truffa, spesso con motivazione apparente.

Ma è stato proprio l’uso non virtuoso dell’istituto il motivo che ha portato il legislatore a deciderne l’abrogazione? L’unica cosa sicura è che, modificata la norma, i magistrati italiani non hanno più potuto, a fronte di una notizia di reato o di un processo a carico di un parlamentare, trasmettere gli atti alla Camera di appartenenza perché questa si assumesse la responsabilità di autorizzare o meno a procedere oltre, rimanendo obbligati ad andare avanti infastidendo con la loro attività il potente di turno e i cittadini che lo avevano votato.

Le forze politiche, invece di limitarsi a proporre una riapposizione dei limiti, per impedire quelli che vengono tuttora ritenuti degli sconfinamenti di campo delle toghe, hanno appoggiato soluzioni, come la separazione delle carriere, la riduzione delle risorse finanziarie, maggiori e nuove complicazioni nelle normative processuali, l’amputazione dei poteri di indagine, idonee ad indebolire uno dei poteri dello Stato piuttosto che a riequilibrare i rapporti istituzionali, facendoci regredire verso sistemi giuridici pre-illuministi.

Come scriveva l’avvocato S. Barzilai nel 1887, l’applicazione concreta dell’autorizzazione a procedere aveva dato adito sin da allora a perplessità, a causa delle resistenze dell’Assemblea nel concedere le autorizzazioni e delle proteste che alcuni muovevano “contro la facilità e quasi il compiacimento onde il P.M. sollevava contro i deputati le sue querele”. Ma allora perché, dopo più di un secolo di vigore dell’istituto, soltanto nel 1993 il legislatore decise finalmente per la sua soppressione? Perché in quell’anno gli abusi avevano superato il limite della decenza?  No, certo, il 1993 e l’intera XI^ legislatura meritano anzi di essere ricordati per il gran numero di autorizzazioni a procedere concesso dalle Camere nei confronti anche di parlamentari “eccellenti”.

Perché dunque soltanto nell’ ottobre 1993 le Camere, con una maggioranza schiacciante, decisero la soppressione dell’istituto? Forse perché la soluzione di compromesso stava cominciando a funzionare bene, garantendo un equilibrio fra il potere legislativo e quello giudiziario, e l’istituto, grazie anche alla nuova regola del voto palese e sull’onda dello sdegno popolare, stava finalmente costringendo gli eletti dal popolo ad assumersi una responsabilità riguardo alle indagini ed ai processi contro i colleghi parlamentari; così da esporsi al giudizio degli elettori in caso di diniego di autorizzazione, ed al contrario, in caso di voto favorevole, da non poter più protestare “contro la facilità e quasi il compiacimento onde il P.M. sollevava contro i deputati le sue querele”.

E quando tutti in Parlamento ebbero compreso sino in fondo le conseguenze cui sarebbero potuti andare incontro in futuro, se non si fosse trovato un rimedio, forse in quel momento si arrivò infine alla Legge Costituzionale n. 3/93, che nel lasciare “liberi” e soli i magistrati liberò effettivamente i soli eletti dal popolo…“se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!” (G. Tomasi di Lampedusa).

Occorre tornare al sistema dell’autorizzazione a procedere per ristabilire un equilibrio fra i poteri dello Stato, per impedire che il sistema giudiziario della Nazione venga indebolito, esposto con i suoi rappresentanti al pubblico ludibrio. Se i magistrati non avranno più il sostegno del Governo e del Parlamento, ogni sentenza rischia di diventare un foglio di carta. La madre dell’ucciso verrà irrisa dal carnefice, che avrà filmato il giudice che ha sottoscritto la condanna, mentre inconsapevolmente beve il caffè, o mangia il panino, o spiega che no, non si può condannare senza prove….

Maria Angioni (giudice presso la Corte d’Appello di Cagliari)

 

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