L’associazione “Sos bebés robados” ne conta quasi 300mila, tra il 1938 e gli anni ’90. Il furto di neonati in Spagna comincia alla fine della guerra civile: le truppe di Franco conquistavano il Paese e le prigioni si riempivano di repubblicani, anarchici, oppositori al regime e migliaia di donne attiviste o semplicemente mogli di oppositori. Con loro anche i figli, colpevoli di essere “rojos” cioè rossi, sottratti appena nati e consegnati a famiglie “cristiane”, per ricevere un’educazione di fede cattolica.

La vicenda dei niños robados è ancora una questione aperta a Madrid. Migliaia di testimonianze sono state raccolte nel corso degli ultimi anni, decine di test di paternità, ricongiungimenti e processi in corso – il più chiassoso l’anno scorso, quando alla sbarra comparve per la prima volta una suora ottantenne, Maria Gomez Valbuena, poi deceduta.

Adesso per la prima volta nella storia iberica un singolo caso, un presunto furto di un bebè nato ad Antequera (Malaga), arriva sul tavolo della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. La famiglia ha fatto ricorso all’istituzione comunitaria sei mesi dopo che la Corte costituzionale di Madrid aveva respinto il caso.

“Ho bisogno di sapere se mio fratello è vivo”, ha spiegato Micaela Alcántara al quotidiano El Pais. La donna, insieme alla madre Carmen Torres, non hanno mai perso la speranza di trovare il bambino nato il 12 ottobre del 1964 nell’Ospedale civile di Malaga. Dopo quattro giorni, il personale sanitario si portò via il neonato con la scusa di cambiarlo. Ma qualche ora dopo dissero alla madre che era morto: “Non vollero farle vedere la salma e dissero a mia madre che si sarebbero occupati di tutto”, ha raccontato la sorella.

Anni dopo però sono venute a galla irregolarità sia nelle carte che nel registro civile che hanno allarmato i genitori. Tanto più che i resti del neonato non figurano nemmeno nei registi del cimiterio di Malaga. Il caso era andato in prescrizione, ma adesso la famiglia spagnola ha fatto ricorso a Strasburgo.

Fino al 1950, succedeva nelle carceri di Franco e nelle case repubblicane: strappavano alle madri i neonati come metodo ulteriorie di repressione. Da allora, e nel corso dei successivi quattro decenni, il furto o l’appropriazione dei bambini avvenne in modo più sottile, in cliniche e asili, la maggior parte legati alle organizzazioni religiose. Le madri non erano più prigioniere politiche, “rojas” o mogli di oppositori, ma donne in camicia da notte intimidite da un medico, stordite dal dolore di aver perso il loro bambino appena nato e che ora rimpiangono di non aver insistito per vedere il piccolo cadavere. Come accaduto a Carmen Torres. Di solito però erano donne sole, molto giovani e con poche risorse, incapaci di reagire alla pressione dei medici, suore e funzionari.

In molti casi le donne venivano indotte a dare in adozione i loro figli a reti irregolari, al di fuori di qualsiasi controllo statale: “C’era un mercato che chiedeva bambini in adozione, così molta gente creò un sistema per soddisfare quella domanda”, spiegava chiaro e tondo il noto sociologo Francisco González de Tena, che per anni ha intervistato le vittime. Solo negli ultimi anni quei bambini, i niños robados, oggi uomini e donne, hanno messo su una rete su Internet per trovare le loro famiglie naturali costringendo diverse procure dello Stato ad aprire fascicoli sul caso.

L’impresa più azzardata è stata quella intrapresa del giudice Baltasar Garzón, quando nel 2008 si dichiarò competente ad indagare sui delitti del franchismo e sugli oltre 100mila desaparecidos. Ma la Spagna si è dimostrata ancora immatura per affrontare gli orrori della dittatura e il giudice venne sospeso dalla sue funzioni.

Una delle più grandi “industrie di bebè”, in funzione fino a trent’anni fa, è stata la clinica San Ramón de Madrid, diretta dal dottor Eduardo Vela, dove quasi il 70 per cento dei parti venivano manovrati per favorire le adozioni clandestine. Oggi Vela, ultrasettantenne, continua ad esercitare la sua professione di ginecologo.

Twitter: @si_ragu

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