Perché bisognerebbe guardare a Tunisi, dimenticata invece dai media italiani. Cito innanzitutto l’appassionato racconto della grande manifestazione della notte tra il 6 e il 7 agosto, la prova di forza dell’opposizione, nelle parole scritte dalla ricercatrice italiana Valeria Verdolini.

“Lungo l’avenue 20 mars 1956, che richiama la data dell’indipendenza tunisina dalla Francia, inizia la coda per ricevere il vassoio dell’iftar, la cena di rottura serale del Ramadan. Tutti in fila, tutti pronti a dividere il cibo, a regalare prugne e uova tra un inno nazionale e un ‘Degage!”. Si canta, moltissimo. Si sventolano le bandiere, tutte rigorosamente della Tunisia. Si distribuiscono palloncini con il volto di Chokri Belaid, il baffo e il neo che hanno scosso nel profondo le emozioni del paese. (…)  Arrivano i pullman dalle Regioni: ragazzi di Siliana, con i volti e le storie pieni di cicatrici; di le Kef, la città che guarda all’Algeria; di SidiBouzid, il centro del paese da cui è partita la rivoluzione nel 2010; da Zarzis, così vicina alla Libia;  scendono a passo veloce, sono tutti giovani, giovanissimi, incazzati. Iniziano i fuochi d’artificio, sembrano un saluto per quelli venuti così da lontano per essere presenti, in piazza, mentre alcuni seduti sul ciglio continuano la loro cena improvvisata. La piazza è un imbuto, dalle due vie si accede allo spiazzo dominato dalla fontana, poi il palco, e poi l’accesso muore su una parete di filo spinato che protegge il palazzo di cristallo e ferro della Costituente. E ad un certo punto, quando le persone continuano ad arrivare e sono volti di ogni età, eleganti signore ingioiellate e anziane velate dalle gambe stanche, uomini distinti e uomini scavati, politici di La Marsa e ragazzini di Cité Ettadhamen (la più grande banlieue della Tunisia), ad un certo punto, tra i fuochi e le bandiere, tra le preghiere dell’imam e i “Comandante Che Guevara”, ci credi. Ci credi che questa piazza possa cambiare. Che dopo poco più di due anni, “Chaab Tunis”, il popolo tunisino, possa ancora scegliere il proprio destino, e dismettere il potere che non rappresenta i desideri e bisogni della nazione.(..)

Fino a poco più due anni fa (escludendo le miniere di Redeyef) un tunisino non sapeva cosa fosse la libertà di manifestare, il semplice scendere in piazza è un gesto rivoluzionario. E’ rottura. E’ disobbedienza. Ma la ex polizia di Ben Alì non è più agguerrita, pronta a reprimere con lacrimogeni e manganelli il solo ‘stare’ nello spazio pubblico. Non lo è stasera, non lo è qui. E l’idea del conflitto ricercato, della dialettica politica dei corpi nelle piazze è un lessico ancora sconosciuto, difficile da pronunciare. (…) E’ quasi l’una. Le famiglie si avviano verso casa, gli irriducibili restano irremovibili in piazza, a gridare. I giovani ballano, cantano, e sono felici. Questa è la rivoluzione che si cerca, che sta ancora tardando ad arrivare. La rivoluzione sentimentale, come diceva Pintor.”

In Tunisia l’opposizione non ha fatto appello all’esercito per rovesciare governoe presidente eletti con le lezioni dell’ottobre 2011, che non rispondono più ai rapporti di forza nel paese. L’esercito tunisino non sarebbe disponibile. Sono stati giorni di mobilitazioni serali e notturne – dopo il tramonto, dopo il caldo, dopo il Ramadan -e di pronunciamenti sociali. E adesso siamo sull’orlo della svolta. Il presidente dell’Assemblea Costituente, Ben Jaffar, si è smarcato dall’alleanza con gli islamisti di Ennahda e ha sospeso i lavori, come forma di pressione per chiedere un nuovo governo di unità nazionale.

Un governo di indipendenti e di tecnici che prepari le elezioni, la stessa richiesta che fanno sindacati e imprenditori. Ci sono state vittime in queste settimane in Tunisia, per due filoni  violenti, almeno in parte importati da Libia e Algeria, azioni senza volto e senza espliciti messaggi politici: la guerriglia sul monte Ciambi ai confini con l’Algeria e l’omicidio politico del dirigente di sinistra Brahmi. Altre vittime ci sono state nelle azioni della polizia per dimostrare che si sta impegnando contro questo “terrorismo”. E  potrebbe trattarsi di capri espiatori. Ma lo scontro politico esplicito e centrale, quello tra opposizione unita e gli islamisti di Ennahda è stato sostanzialmente pacifico, al netto di qualche inutile brutalità poliziesca.  In Turchia, quello contro gli silamisti al potere è stato uno scontro sostanzialmente pacifico ma perdente, in Egitto è stata una iniziativa che ha coinvolto l’esercito, è stato vincente ma ha portato il paese a una sorta di guerra civile. In Tunisia potrebbe essere vincente ma anche  inclusivo, portare a un governo di transizione negoziato con gli spodestati islamisti di Ennahda.

Più ancora dell’importanza di un cambiamento politico, sarebbe il valore di arrivarci senza praticare né sfiorare la guerra civile. Questo sarebbe il vero cambiamento, per la sponda Sud del Mediterraneo. Per questo forse varrebbe la pena di dare un po’ di attenzione alla Tunisia.

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