In un momento nel quale gran parte dell’imprenditoria italiana fa sempre più fatica a sopravvivere ( e lasciamo perdere la possibilità di competere e di affermarsi), esistono ancora esempi di grande valore, prima di tutto umano e poi imprenditoriale,  che è bello incontrare e che credo sia giusto raccontare.

Qualche settimana fa ho chiesto al fondatore di un importante gruppo alimentare di questo Paese, diciamo tra i primi dieci, di indicarmi chi mi potesse dare un consiglio su alcuni aspetti tecnici di un’azienda del suo stesso settore, ma grande meno di una briciola delle sue.

Avrebbe potuto glissare la richiesta, darmi semplicemente un nome e invece ha proposto lui di venirmi a trovare in azienda in compagnia del suo direttore tecnico.

Il giorno dell’appuntamento conosco un signore di una settantina di anni, il cui nome è anche il suo marchio, puntualissimo e cortese.

Tralascio i contenuti tecnici della visita, l’aver voluto “vedere la fabbrica” e la capacità di coglierne immediatamente, con domande competenti e precise, i veri punti di forza e di debolezza; quello che fa la differenza tra un imprenditore di razza e quelli che imprenditori si sono voluti inventare è che la prima cosa che ha mi detto mentre lo facevo entrare in azienda e in qualche modo mi giustificavo per la dimensione e la tipologia dell’impianto, certo molto diverse da quelle a cui questo signore è abituato, è stato: “Non si preoccupi, abbiamo iniziato tutti così”.

Joseph Schumpeter ci ha insegnato che una delle caratteristiche dell’imprenditore moderno è la sua capacità di innovare nei prodotti, nei processi, nell’azienda. Personalmente credo che oggi più che mai quello di cui avremmo bisogno non sono tanto piani governativi, incubatori regionali o universitari, programmi di sviluppo europeo, sostegni finanziari o altri strumenti di promozione (peraltro benvenuti), ma uomini che non solo sappiano raccogliere fondi ed aggregare investitori, ma soprattutto stimolare fiducia per le loro qualità umane e rispetto per quello che hanno dimostrato di saper fare.

Dall’altra parte, fino a quando il sistema paese, cambiando in tal modo in modo radicale il suo approccio attuale, non riconoscerà e non valorizzerà queste caratteristiche più che i risultati raggiunti in dodici mesi, continueremo solo a prolungare l’illusione dell’Italia come un Paese dove si può ancora fare impresa.

Chapeau, Monsieur B. !

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