C’era un uomo molto giovane nella casa occupata di via Nino Bixio, nel romanzo Sangue di cane diventerà la casa dei morti. Ci sono luoghi e personaggi che torneranno a più riprese e sono sempre loro e sono vigili in tutti i miei scritti. Questo giovane si chiamava Damian, veniva da Ostrowiec. Jolka mi condusse all’ingresso del rudere. A un tratto dissi: “Jolka sono l’italiana, sai, anzi, sono l’albanese, tu mi conosci”. Jolka alzava le spalle, fingeva di non ricordare. La donna indicava la finestra senza ante, “Damian è dentro” disse.

Salimmo, Damian dormiva in un angolo, sopra una stuoia logora, coperto da un quadrato di cartone. Guardai la donna, mi vennero le lacrime. La donna disse: “Non è tuo polacco, lui chiami Damian”. Scrivevo sul moleskine, senza sapere che quel che annotavo con disciplina era la mia ora nel deserto. Che idiota. Ne avete mai sentito parlare? Un giorno la smetto di raccontare sempre la stessa storia, come fanno certi registi che alla fine girano lo stesso film. Scrissi sul moleskine: Damian di Ostrowiec. Scrissi: malato di scabbia. La scabbia non è una malattia. Poi andai. Allora ho attraversato la via della casa dei morti e sopra sovrastava il piano della creaturina. Non era un paradosso, l’una salvava quel che il mondo ripudiava, la pietra di scarto è diventata testata d’angolo, eccovi la parabola, i miei sentieri sono solcati da segni evangelici. Potrei commuovermi, a volte mi capita. Il palazzo lo hanno ridipinto, non è più lo stesso. Le grancasse dei polacchi o dei tedeschi in coma etilico smetteranno di suonare il loro lugubre andante, ripareranno altrove. Ho attraversato la strada, guardato su. La creaturina aveva un fratello, per tutti era “il professore”. Il professore preparava il caffè, inveiva con i beceri, parlava delle cose del mondo con me e anche delle cose dei cieli e certe volte si intrometteva Anita, la rom di Valea Seaca, per dire “sposi professore, prego”. No, bella, no. Il professore rideva con la sua risata da professore, le mani in tasca, i pantaloni grigi stinti, la camicia sgualcita da professore di latino in pensione. Le ante sbattevano in camera della creaturina, sotto qualcuno urlava o faceva a botte. Il professore mi indicava la sua via verso la salvezza forse. Accendeva la radiolina poi, sul secretaire. Adieu mon ami. Era tutto quel che avevo, era davvero tutto. Il mondo, i pezzi di quel mondo, tutte pietre di scarto. Ancora una volta mi ritrovo a sussurrare, la serpe nel seno, è andata.

(continua)

Articolo Precedente

Necrologio per un rinoceronte

next
Articolo Successivo

Vino, la Francia chiede una distinzione fra pubblicità e articoli redazionali

next