Terra 2020, ultima chiamata: ormai da lunghi anni, mostruose creature ribattezzate Kaiju escono dagli abissi oceanici e distruggono la nostra razza, insieme a tutto quel che incontrano sul proprio cammino. San Francisco, Manila e altre città costiere vengono spazzate via in un batter di ciglia. Che fanno gli umani, stanno a guardare? No, si coalizzano nella Pan Pacific Defense Corps e costruiscono un’arma speciale, gli Jaegers (“Cacciatori”), imponenti robot guidati simultaneamente da due piloti con le menti interlacciate da un ponte neuronale: l’estremo baluardo allo strapotere Kaiju. Tra i valorosi – la congruenza biologica aiuta il drift (ponte) – anche i due fratelli Raleigh (Charlie Hunnam) e Yancy (Diego Klattenhoff), che di quei lucertoloni mastodontici ne rimandano al creatore più d’uno, finché al largo dell’Alaska non ne beccano uno letale: Yancy ci lascia le penne, Raleigh molla lo Jaeger. Cinque anni dopo, i robot stanno per lasciare spazio a una gigantesca muraglia anti-Kaiju. Raleigh ci lavora, ma non è destino: il suo ex comandante Stacker Pentecost (Idris Elba) vuole ritorni a pilotare il suo vecchio Jaeger Gipsy Danger per prendere parte alla madre di tutte le battaglie contro gli oceanici dinosauri. Problema, chi affiancargli dopo la morte del fratello?

A Hong Kong Raleigh trova un partner ideale nella giovane Mako Mori (Rinko Kikuchi), ma Pentecost non è dello stesso avviso…Se vi piace la macedonia, specie quella con i lychees, se più che il palato per voi contano ciotola e panza piena, Pacific Rim è il vostro film, un’ipercalorica, tonitruante, distruttiva e fracassona macedonia – per non dire frullato – composta da Guillermo Del Toro e servita in sala da Warner Bros. Direte, ma perché i lychhes? Il Pacifico non è peregrino, e noi europei che sulle carte lo vediamo spaccato dobbiamo farcene una ragione: con 200 milioni di dollari di production budget, il mercato asiatico per Hollywood è imprescindibile, per cui Hong Kong et alii sugli scudi (location), la Rinko Kikuchi di Babel per co-protagonista e, davvero non ultimo, l’eredità nipponica che Pacific Rim esibisce addirittura meno di quanto in verità dovrebbe.

Il riferimento più smaccato degli sceneggiatori Del Toro e Travis Beacham è la saga (serie tv e film) di Evangelion, ma nel clangore robotico è arduo, accanto ai Transformers di Michael Bay, non cogliere l’eco steampunk (già negli Hellboy di Del Toro) di Steamboy, diretto da Katsuhiro Otomo nel 2004. Ebbene, certe volte un film offre la recensione di un altro: animazione dalla straordinaria forza visiva, Steamboy si impossessa della stessa energia che muoveva le macchine-monstre della rivoluzione industriale, ma tra pistoni e sfere a vapore, armi terrificanti e prodigi tecnologici incunea l’onirismo infantile, la leggerezza dell’immaginazione quale antidoto alla pesantezza dei macchinari. Mutatis mutandis, Pacific Rim non ha questo doppio passo: nel fuoricampo non c’è nulla, è tutto a fuoco in 3D, tutto in primissimo piano, e sono solo scontri tra titani, uomini d’acciaio, battleship fuori scala in catena di montaggio.

Di psicologia nemmeno l’ombra, e quando Mako annega nei ricordi dolorosi, rischiando di pervertire il drift e rivolgere Gipsy Danger contro i suoi, Del Toro non indugia, liquida i pensieri e riscatena l’action. Eppure, il regista messicano ci ha abituato ad altro, a vagare con l’immaginazione nel Labirinto del fauno, trovare un Giano bifronte in Hellboy, buttare un occhio al Sistema e l’altro fermo sulle proprie ossessioni .

Qui no, Pacific Rim è cinema di mero consumo, con idee rottamate e una classe energetica mostruosa quanto dispersiva. E, avviso ai giapponesi, il robot della salvezza ha un propulsore nucleare…

il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2013

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